Mentre i giornali si concentrano sulle biografie dei candidati, e sulla “novità storica” della candidatura di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti, chi si interessa davvero alla politica americana dovrebbe piuttosto chiedersi: “E’ finito il ciclo conservatore iniziato nel 1968?” La risposta a questa domanda è essenziale tanto per capire se Obama ha delle chances di essere eletto quanto per prevedere se, in caso di vittoria, la sua sarà una presidenza debole e incerta o, al contrario, l’avvio di un nuovo ciclo dominato dai democratici.
In breve: il ciclo conservatore del 1968 nasceva da un fallimento democratico, la guerra in Vietnam, ed ebbe l’effetto di oscurare anche le fondamentali conquiste per i lavoratori e per la classe media portate dal New Deal di Franklin Roosevelt. Conquiste così straordinarie (il sistema pensionistico, l’ingresso nella classe media di milioni di giovani soldati grazie al GI Bill, la fine della segregazione razziale) da creare una maggioranza stabile alla Camera dei rappresentanti per oltre 60 anni, fino al 1994. I democratici erano sulla difensiva da molto prima, dal 1968 quando vinse Nixon, ma le idee conservatrici non si affermarono veramente che a partire dal 1980, con Ronald Reagan. In realtà, molti si attendevano un “riallineamento” stabile dell’elettorato già 40 anni fa ma questo spostamento non avvenne, da un lato perché il pensiero nazionalista non era ancora articolato e dettagliato a sufficienza per produrre maggioranze solide, e dall’altro perché l’incidente Watergate, spazzando via i repubblicani nelle elezioni del 1974 e del 1976, ebbe l’effetto di rinviare la formazione di una coalizione conservatrice. Come lo stesso Obama ha sottolineato, Reagan era un uomo di idee e questo in politica pesa (che lui le “recitasse” piuttosto che crearle personalmente, non ha alcuna importanza). Dal 1981 in poi i democratici sono sempre stati in ritardo e sulla difensiva, ridotti a proporre versioni edulcorate delle politiche reganiane: “Meno tasse sì, ma…”. Più spese per la difesa “sì, ma….”. Il prevedibile effetto di questa debolezza teorica è stata una prolungata fase di afasia del partito, durata fino al 1992.L’elezione di Bill Clinton, come quella di Tony Blair in Gran Bretagna, ebbe l’effetto di mascherare con abili tatticismi una malattia che rimaneva. Il clintonismo è stato un efficace antinfiammatorio ma, alla lunga, non si può curare la polmonite con l’aspirina. La debolezza della candidatura di Hillary quest’anno è stata il fatto che proponeva, a 16 anni di distanza, di tornare a prendere delle dosi di aspirina, magari effervescente e arricchita di vitamina C, quando gran parte degli americani vuole gli antibiotici.
Gli Stati Uniti escono da 8 anni di presidenza Bush con due guerre in corso, un debito pubblico fuori controllo, un isolamento diplomatico mai così evidente e una crisi finanziaria che sta mettendo sulla strada milioni di famiglie. Due terzi degli elettori vogliono chiudere la partita Iraq e cambiare radicalmente rotta. Il problema è che da chi avrà la responsabilità del Paese fra pochi mesi non si sono sentite grandi proposte. I due candidati democratici sono stati particolarmente timidi nell’articolare programmi ed è curioso che Barack Obama abbia parlato molto di “cambiamento” ma poco di impegni concreti. Se sarà eletto avrà larghissime maggioranze sia alla Camera che al Senato, però la tradizionale indisciplina del partito democratico tornerà a farsi sentire dopo poche settimane, a meno che il nuovo inquilino della Casa Bianca non si mostri timoniere deciso e con una bussola efficiente.
Obama avrà vari handicap nella corsa alla presidenza, in particolare un razzismo occulto che sicuramente si farà sentire nelle urne, ma anche lo straordinario vantaggio di un anno elettorale in cui i repubblicani sono allo sbando e, per quanto abbiano in John McCain un candidato rispettabile, sono scesi attorno al 30% nell’autoidentificazione dei cittadini che votano. Poiché la strada dal 30% al 51% è lunga assai, Obama parte favorito, qualunque cosa dicano i sondaggi odierni.Il problema, più che vincere, sarà governare in modo da realizzare una svolta, proporre idee coerenti, mettere insieme una coalizione politicamente solida, formare un blocco sociale durevole. Dai think tank progressisti è uscita qualche idea nuova ma nulla di sufficientemente radicale per sfidare il senso comune conservatore che ancora non si è dissolto. Si può solo sperare che il ragazzo nato alle Hawaii da madre americana e padre keniota abbia nel sangue la lungimiranza di Franklin Roosevelt e la glaciale determinazione di Abramo Lincoln piuttosto che le abilità manovriere di Jimmy Carter e di Bill Clinton.
Fabrizio Tonello