Washington D.C. – L’esplosione avvenuta martedì a Sadr City ha ripresentato le debolezze che affligono l’Iraq e ne rendono incerto il futuro, nonostante il relativo miglioramento delle condizioni di sicurezza registrato recentemente.Gli osservatori attribuiscono la diminuzione della violenza alla cosidetta “surge”, l’aumento del numero delle forze americane ordinata un anno fà dal Presidente Bush. Stephan Biddle e Vali Nasr, due ricercatori del Council on Foreign Relations (CFR), sono rientrati la settimana scorsa da un viaggio di ricognizione attraverso l’Iraq e hanno presentato alla stampa le proprie riflessioni. Biddle e Nasr hanno rilevato che, grazie al maggior numero di soldati statunitensi, al coinvolgimento crescente delle truppe irachene, e ad una serie di cessate-il-fuoco concordati negli ultimi mesi tra il governo e le diverse milizie attive nel paese, l’aumentata sicurezza sta consentendo all’Iraq di cominciare a dedicarsi alle attività di ricostruzione. Molti dei progressi attestati, però, potrebbero interrompersi e la situazione rimane delicata. Secondo Biddle, “la sfida più importante ora è di riuscire a far rispettare i cessate-il-fuoco”.In questo contesto di relativa calma, l’Iraq verrà investito nei prossimi mesi da una serie di sviluppi che potrebbero portare ad un consolidamento dei progressi fatti, o al contrario, ad un ritorno al caos degli ultimi anni. Innanzitutto sono in corso le trattative sull’Accordo sullo Status delle Forze (cosidetto SOFA) che regola le relazioni tra Washington e Baghdad e che gli Stati Uniti vogliono firmare entro la fine dell’anno, prima che scada il mandato delle Nazioni Unite. I contorni delle trattative rimangono misteriosi; “Quello che si sente dire qui è che gli Americani vogliono stabilire un numero elevato di basi militari, chiedono l’immunità giudiziaria per i soldati americani, completa libertà di condurre operazioni militari dovunque nel paese e di detenere chiunque ritengano necessario”, mi racconta Nishant Dahiya, che è a Baghdad come producer per National Public Radio (NPR). Gli Iracheni, da un lato, sono preoccupati delle conseguenze di tale accordo sulla propria sovranità, dall’altro il governo si rende conto di essere ancora dipendente da Washington.Al contempo, l’Iraq sta cercando di organizzare le elezioni provinciali. Il parlamento deve passare una legge elettorale, che al momento è bloccata da lotte interne. “Se, e quando, le elezioni verranno organizzate,” mi spiega Dahiya, “bisognerà aspettarsi una ridistribuzione del potere.” Le Sahwa, milizie sunnite finanziate dagli Stati Uniti perchè contribuissero alla lotta contro Al Quaeda, dovrebbero conquistare posizioni nella provincia di Anbar. Da parte sciita, il movimento di Muqtada al Sadr, che non prese parte all’ultima consultazione elettorale, pare intenzionato a partecipare alla prossima. “Integrare i Sunniti nella politica nazionale è un fattore decisivo”, sostiene Dahiya. Così come sarebbe importante convincere Sadr ad abbandonare le armi, considerato che il suo movimento ha un sostegno popolare enorme tra gli sciiti poveri, che rappresentano una grossa parte dell’elettorato.
Infine, non bisogna dimenticarsi dell’Iran, che un rapporto del Dipartimento della Difesa americano accusa di finanziare, armare e addestrare milizie sciite anti-governative. Per quanto alcune di queste relazioni siano reali e datino ai tempi del regime sunnita di Saddam Hussein, quando i combattenti sciiti trovarono riparo in Iran, è anche vero che dovrebbe essere nell’interesse di Teheran vedere l’Iraq stabilizzarsi. “Visto il rapporto difficile con gli Stati Uniti, gli Iraniani desiderano che le truppe statunitensi rimangano invischiate in una situazione difficile in Iraq, oppure, al contrario, che vengano cacciate dalla regione del tutto,” mi dice Dahiya.Mentre il paese attraversa questa difficile transizione politica, bisognerà osservare, nelle prossime settimane, l’effetto di un cambiamento a livello militare. Infatti, entro metà luglio, il numero delle truppe a stelle e strisce verrà riportato a livelli appena superiori a quelli dell’inizio del 2007. La decisione di ritirare i propri soldati dall’Iraq potrebbe diventare ancor più marcata a partire da novembre, nel caso che il candidato democratico Barack Obama vinca le elezioni per la presidenza. Tale riduzione delle truppe pone una serie di domande sul futuro del paese. Vali Nasr di CFR sostiene che il miglioramento delle condizioni di sicurezza non dovrebbe far pensare che gli Americani possano ritirarsi più facilmente. “Molti dei sucessi degli ultimi tempi dipendono dalla presenza dell’esercito statunitense”, ha detto Nasr. Ad esempio, nonostante l’esercito iracheno stia assumendo un ruolo progressivamente più importante, solo una piccola percentuale delle truppe locali paiono essere pronte per sostiture i soldati statunitensi. Uno studio del Government Accountability Office pubblicato martedì ha rilevato che solo il 10% dei soldati iracheni fin qui addestrati sarebbe in grado di proseguire il proprio lavoro senza il sostegno degli Americani.Schiacciato tra l’Iran, gli Stati Uniti, forti rivalità interne fra Sciiti e Sunniti, e Al Quaeda che ultimamente è silenziosa ma pare stia semplicemente riorganizzandosi, con un esercito ancora debole ed un sistema politico molto fragile, l’Iraq rimane un paese ad alto rischio di implosione e guerra civile. “Al momento le tensioni sono sedate, ma nulla è stato risolto,” conclude Dahya. L’invasione americana del 2003, è ormai chiaro a tutti, ha scatenato un inferno. Meno chiaro è il modo in cui l’Iraq possa venirne fuori evitando ulteriori bagni di sangue.
Infine, non bisogna dimenticarsi dell’Iran, che un rapporto del Dipartimento della Difesa americano accusa di finanziare, armare e addestrare milizie sciite anti-governative. Per quanto alcune di queste relazioni siano reali e datino ai tempi del regime sunnita di Saddam Hussein, quando i combattenti sciiti trovarono riparo in Iran, è anche vero che dovrebbe essere nell’interesse di Teheran vedere l’Iraq stabilizzarsi. “Visto il rapporto difficile con gli Stati Uniti, gli Iraniani desiderano che le truppe statunitensi rimangano invischiate in una situazione difficile in Iraq, oppure, al contrario, che vengano cacciate dalla regione del tutto,” mi dice Dahiya.Mentre il paese attraversa questa difficile transizione politica, bisognerà osservare, nelle prossime settimane, l’effetto di un cambiamento a livello militare. Infatti, entro metà luglio, il numero delle truppe a stelle e strisce verrà riportato a livelli appena superiori a quelli dell’inizio del 2007. La decisione di ritirare i propri soldati dall’Iraq potrebbe diventare ancor più marcata a partire da novembre, nel caso che il candidato democratico Barack Obama vinca le elezioni per la presidenza. Tale riduzione delle truppe pone una serie di domande sul futuro del paese. Vali Nasr di CFR sostiene che il miglioramento delle condizioni di sicurezza non dovrebbe far pensare che gli Americani possano ritirarsi più facilmente. “Molti dei sucessi degli ultimi tempi dipendono dalla presenza dell’esercito statunitense”, ha detto Nasr. Ad esempio, nonostante l’esercito iracheno stia assumendo un ruolo progressivamente più importante, solo una piccola percentuale delle truppe locali paiono essere pronte per sostiture i soldati statunitensi. Uno studio del Government Accountability Office pubblicato martedì ha rilevato che solo il 10% dei soldati iracheni fin qui addestrati sarebbe in grado di proseguire il proprio lavoro senza il sostegno degli Americani.Schiacciato tra l’Iran, gli Stati Uniti, forti rivalità interne fra Sciiti e Sunniti, e Al Quaeda che ultimamente è silenziosa ma pare stia semplicemente riorganizzandosi, con un esercito ancora debole ed un sistema politico molto fragile, l’Iraq rimane un paese ad alto rischio di implosione e guerra civile. “Al momento le tensioni sono sedate, ma nulla è stato risolto,” conclude Dahya. L’invasione americana del 2003, è ormai chiaro a tutti, ha scatenato un inferno. Meno chiaro è il modo in cui l’Iraq possa venirne fuori evitando ulteriori bagni di sangue.
Valentina Pasquali