venerdì 29 febbraio 2008

Obama: "We are the Ones"




Dopo "Yes, we can", un'altra canzone creata per Barack Obama dai suoi sostenitori. In poco più di un mese, è stata vista su YouTube da oltre un milione di persone. Nel video si riconoscono alcune star americane, accanto a tanti volti di gente comune.

Texas: Hillary si appella al voto ispanico



In questo video Hillary Clinton si appella all'ampio elettorato ispanico texano.

L'Ohio deciderà tra Clinton e Obama con un occhio all'economia

(da CFP NEWS Anno 4 Numero 117 – 29 febbraio 2008)

di Valentina Pasquali, Washington DC

Il 4 marzo gli americani tornano alle urne per votare nelle primarie dell’Ohio, del Rhode Island, del Texas e del Vermont. Con la nomination del partito repubblicano ormai decisa in favore di John McCain, gli occhi di tutta la nazione sono puntati sul voto dei democratici in Ohio e Texas, due tra i più popolosi stati americani, che martedì mettono in palio 370 delegati alla convention nazionale.
A lungo le previsioni hanno dato Hillary Clinton largamente favorita sia in Texas che in Ohio. Gli ultimi sondaggi, però, mostrano che l’onda d’entusiasmo per Barack Obama ha colpito anche questi due stati. Un sondaggio condotto per telefono da Rasmussen Reports in Texas il 24 febbraio ha rilevato che ormai Clinton conduce solo di un punto percentuale, 46 a 45% su Obama, quindi statisticamente i due sono alla pari.
Quanto all’Ohio, Jonathan Riskind, corrispondente da Washington DC per il Columbus Dispatch, il quotidiano della capitale dell’Ohio, mi racconta per telefono; “L’Ohio teoricamente è uno di quegli stati in cui Clinton dovrebbe fare molto bene, vista la presenza elevata di lavoratori a basso reddito e senza un’istruzione universitaria, impiegati nell’industria. In realtà Obama ha fatto progressi notevoli anche con questo gruppo demografico nelle ultime settimane”. Ellen Jan Kleinerman, una giornalista del Plain Dealer, il quotidiano di Cleveland, mi scrive in un’e-mail; “Penso che il voto si trasformerà in un testa a testa. Clinton ha ancora un vantaggio minimo, ma i raduni di Obama in giro per lo stato e il sostegno che sta ricevendo dai leader della comunità dei neri americani stanno facendo cambiare la marea”.
Fino a tre settimane fa, i sondaggi indicavano all’unisono un vantaggio per Hillary Clinton in Ohio di oltre 20 punti percentuali. Un rilevamento condotto dallo stesso Columbus Dispatch all’inizio di febbraio dava la Senatrice di New York in testa di ben 23 punti. Darrel Rowland, giornalista del quotidiano, scriveva commentando i risultati; “Barack Obama è riuscito a convincere l’Iowa, la Carolina del Sud e persino Ted Kennedy in Massachussets. Il Senatore dell’Illinois però deve ancora concludere l’affare con l’Ohio”. La situazione sembra essere cambiata negli ultimi giorni e il margine in favore di Clinton pare essersi di molto assottigliato. Ad esempio un sondaggio condotto da Survey USA il 26 febbraio mostra Clinton con il 50% delle preferenze contro il 44% di Obama.
Secondo Jonathan Riskind, a questo punto bisogna chiedersi se “tra gli operai e le donne bianche, le caratteristiche demografiche dell’Ohio rimarranno sufficientemente favorevoli a Clinton affinché la senatrice di New York possa comunque portare a casa una vittoria”. Per rispondere a questa domanda Kleinerman mi racconta; “L’Ohio è uno stato industrializzato a nord e nord est, rurale nelle regioni centrali e un po’ un misto al sud. Gli elettori liberal e i sindacati industriali fanno delle regioni a nord la base dei fedeli al partito democratico. Invece, le parti centrali e meridionali sono più conservatrici e quindi tendenzialmente votano repubblicano”.
Questo cosiddetto urban-rural divide, ovvero le diverse caratteristiche demografiche che marcano le aree urbane e quelle rurali dello stato, influenzerà senza dubbio il voto. Le previsioni sono che Obama otterrà ottimi risultati nelle grandi città, mentre Clinton manterrà un vantaggio solido nelle campagne e nei paesi. Il governatore dello stato Ted Strickland, che viene dal sud-est rurale dell’Ohio ed è un democratico conservatore (ad esempio è un difensore del diritto costituzionale di possedere armi da fuoco), ha ufficialmente dichiarato il proprio sostegno per la candidatura di Hillary Clinton. “Il governatore ha tentato così d’aiutare l’ex-first lady a consolidare il proprio vantaggio nelle campagne” dice Jonathan Riskind.
Infine si dovrà osservare quale impatto avrà il voto dei neri americani, tradizionalmente sostenitori di Obama e che sono l’11,9% della popolazione dell’Ohio (appena meno della media nazionale calcolata nel 2005 al 12,8%).
L’Ohio rappresenta una sfida difficile per i candidati alla nomination democratica, considerato che lo stato attraversa una crisi economica particolarmente profonda. Secondo dati riportati da Laura Meckler del Wall Street Journal, il tasso di disoccupazione in dicembre era valutato intorno al 6%, un punto percentuale in più della media nazionale. Il tasso d’insolvenza sui mutui bancari è all’1,44%, contro lo 0,87% nazionale. Secondo dati raccolti da Moody’s Economy e riportati dal New York Times, nel 2000 la tipica famiglia dell’Ohio guadagnava più soldi della tipica famiglia americana. Negli ultimi otto anni, però, il reddito mediano dello stato è sceso di quasi il 10%, a circa 47 mila dollari l’anno, di 2,300 dollari inferiore al reddito mediano nazionale. Kleinerman dell’Plain Dealer aggiunge; “Uno studio recentemente pubblicato dall’American Manufacturing Trade Action Coalition, ha rilevato che l’Ohio ha perso più di 209 mila posti di lavoro nei settori non-agricoli tra il 2000 e il 2007. Il tasso d’occupazione è calato del 3,7%, il calo più preoccupante dal 1939, quando gli Stati Uniti stavano attraversando i momenti finali della Grande Depressione”.
Non c’è da sorprendersi dunque che l’economia sia diventato il problema più sentito per gli elettori di qui (anticipando un trend ormai evidente anche a livello nazionale). Secondo Kleinerman; “La domanda ha cui devono rispondere Hillary Clinton e Barack Obama, ma anche il Senatore Repubblicano John McCain, è: che programmi hanno per mantenere e aumentare i posti di lavoro in Ohio? Penso che questa sia la preoccupazione degli elettori oggi. E non credo che la gente dell’Ohio sia soddisfatta delle risposte ottenute finora dai vari candidati”.
Non a caso, nell’ultimo dibattito televisivo tra Clinton e Obama, ospitato martedì sera da Cleveland State University e trasmesso dal network MSNBC, i due candidati alla nomination democratica si sono concentrati su tematiche economiche ed in particolare sui rispettivi piani per rinegoziare il trattato di libero scambio commerciale con il Messico e il Canada conosciuto come NAFTA. “NAFTA è un tema caldo in Ohio, molti posti di lavoro sono stati persi e molte persone attribuiscono il fenomeno al commercio internazionale e al NAFTA, che avrebbero risucchiato altrove i posti di lavoro dello stato”, mi spiega Riskind.
Nel guardare al voto di martedì bisogna anche ricordarsi dell’importanza che l’Ohio riveste a livello di politica nazionale. Si tratta di un grande stato, il settimo più popoloso del paese (aveva nel 2005 11,5 milioni di cittadini). Ed è uno dei cosiddetti swing states, quegli stati che hanno una percentuale rilevante di elettori indecisi e che d’elezione in elezione cambiano la propria fedeltà politica votando una volta democratico e quella dopo repubblicano. L’Ohio contribuì, nel 2004, a decidere la rielezione di George Bush.
Per come si stanno mettendo le cose, l’opinione più diffusa è che se l’economia non migliora, gli elettori repubblicani degli stati più colpiti, come per l’appunto l’Ohio, potrebbero decidere di votare per chi tra Obama e Clinton sarà il candidato democratico in novembre, visto che sono proprio i politici dell’asinello che stanno facendo dell’economia il cuore della propria campagna elettorale, mentre John McCain ha deciso di correre come il candidato della sicurezza nazionale.
Jonathan Riskind mi spiega la sua posizione quanto alle elezioni di novembre; “Nonostante io sia un po’ riluttante nel porre attenzione eccessiva sul voto nelle primarie nella speranza di leggervi indicazioni valide anche per le elezioni generali, (dato che le primarie coinvolgono un numero limitato di votanti), martedì varrà comunque la pena tenere d’occhio il voto degli indipendenti, che in Ohio posso scegliere di partecipare nell’una o nell’altra elezione”. La competizione repubblicana è ormai decisa e John McCain ha sostanzialmente già vinto la nomination. Di conseguenza è facile prevedere che gli indipendenti saranno tentati di votare nella primaria democratica dove possono ancora fare la differenza. “In ogni modo”, pensa il giornalista del Columbus Dispatch, “sarà interessante vedere in quali proporzioni costoro voteranno per McCain o per Obama”. Questo potrebbe essere un segnale importante nel cercare di capire come proseguirà durante l’estate e l’autunno la corsa alla Casa Bianca.

giovedì 28 febbraio 2008

Obama, spot per gli ispanici




Per conquistare la nomination democratica sarà fondamentale guadagnare voti tra gli ispanici. Obama ci prova con questo spot, andato in onda in tutti gli stati del Midwest.

venerdì 22 febbraio 2008

Stati Uniti: un Paese socialdemocratico?

(da: CFP NEWS, Anno 4 Numero 116 – 22 febbraio 2008)

di Fabrizio Tonello

Da alcuni anni, negli Stati Uniti è maturato un lento ma profondo cambiamento di opinioni, valori e atteggiamenti verso temi che interessano da vicino anche noi: i rapporti fra cittadini e governo, le sorti del welfare state, il ruolo degli imprenditori e dei sindacati. L’entusiasmo per candidati “nuovi” (sia Obama che McCain non erano certo le scelte degli apparati di partito) è solo un aspetto di questo mutamento, di cui le cronache politiche che invadono i giornali italiani ignorano quasi tutto.
La ragione sta nel fatto che i media concentrano la loro attenzione sull’aspetto competitivo e personalistico delle elezioni (chi è avanti nei sondaggi, chi vince nel tale caucus, chi ha fatto una gaffe ecc.) mentre si disinteressano quasi completamente dei programmi dei candidati e di quanto questi rispondano alla richiesta politica che viene dai cittadini. In realtà, questo disinteresse è meno frutto di scarsa professionalità da parte dei gioralisti di quanto sia un indizio del deficit democratico che affligge la nazione americana. Un deficit democratico che si potrebbe descrivere così: il sistema politico è assai poco efficiente nel trasformare le richieste dell’opinione pubblica in policies adeguate.
Questa situazione non è nuova, ma oggi disponiamo di uno strumento per metterla meglio a fuoco: un’indagine del Pew Research Center, uno dei più rispettati centri di ricerca sull’opinione pubblica, sull’arco di vent’anni, fra il 1987 e il 2007: Trends in Political Values and Core Attitudes: 1987-2007, http://people-press.org/reports/display.php3?ReportID=312 . Da questo lavoro emerge che negli Stati Uniti c’è stato un netto spostamento a sinistra: gli americani sono diventati più tolleranti e aperti nelle relazioni tra le razze, più diffidenti nei confronti delle grandi imprese, più disponibili a sperimentare soluzioni basate sul settore pubblico rispetto a quello privato. Un solo esempio: mentre in Italia si moltiplicano gli attacchi contro la sanità pubblica, due terzi degli americani si dichiarano favorevoli a un sistema sanitario nazionale, al posto di quello basato sulle assicurazioni private che esiste oggi.
In un certo senso, la maggioranza dei cittadini degli Stati Uniti è oggi assai più vicina alle tesi della socialdemocrazia europea storica di quanto non lo sia al proprio Congresso o al presidente Bush. L’unico terreno dove la distanza fra Europa e Stati Uniti rimane molto grande è quello della religione: il nostro continente è assai più laico.
Cominciamo dai risultati più sorprendenti: sette americani su dieci sono convinti che "Il governo dovrebbe prendersi cura di coloro che non sono autosufficienti", una percentuale che non quadra con l’immagine stereotipata degli Stati Uniti come paese crudele e indifferente alla sorte dei più deboli. Il sondaggio chiedeva anche: "Il governo dovrebbe aiutare chi ha bisogno, anche se questo significa un maggiore debito pubblico?" La risposta del 54% è positiva, con un aumento di 13 punti percentuali rispetto al 1990 (si prega di trasmettere i risultati a Bruxelles e alla Banca Centrale Europea.
Nell’arco degli ultimi vent’anni, tutte le guerre condotte dalla destra contro il multiculturalismo e l’omosessualità sono fallite: se nel 1987 il 51% degli interrogati era d’accordo con l’affermazione: "I consigli scolastici dovrebbero avere il diritto di licenziare gli insegnanti omosessuali", oggi questa percentuale si è ridotta al 28%. Troppo, naturalmente, ma il passo in avanti è stato enorme. Così pure l’atteggiamento nei confronti delle relazioni tra bianchi e neri si è completamente rovesciato: vent’anni fa erano una minoranza gli americani favorevoli a matrimoni o fidanzamenti tra giovani di razze diverse (48%), oggi sono l’83%. Non c’è dubbio che le forze intolleranti e bigotte che trovano la loro espressione nel partito repubblicano hanno dovuto masticare amaro nel constatare quanto le nomine di afroamericani come Colin Powell e Condoleeza Rice alla guida della diplomazia abbiano favorito la tolleranza e l’integrazione che oggi vanno a vantaggio di Barack Obama.
Dal 1980 ad oggi, gli americani hanno avuto un Presidente democratico solo per 8 anni e anche Clinton era probabilmente il democratico più conservatore dai tempi di Al Smith, nel 1928. Per il resto, ci sono state soltanto amministrazioni repubblicane che vantavano quotidianamente il loro legami col Big Business. Dopo un quarto di secolo di culto del mercato, il 70% degli americani è convinto che le corporation “facciano troppi profitti” e il 68% è d’accordo sul fatto che “i sindacati sono necessari per proteggere il lavoratore”.
Infine, guardiamo al problema centrale del rapporto fra il resto del mondo e gli Stati Uniti: la propensione di questi ultimi ad una politica militare attivistica, con il mantenimento di basi e uomini ai quattro angoli del globo, dall’Afghanistan a Cuba, dall’Italia al Giappone. Una diversa indagine, del Chicago Council on Global Affairs, indica che “le divergenze di vedute tra le opinoni dei leader e quelle del pubblico per quanto riguarda la politica estera tendono ad essere frequenti e, in molti casi, piuttosto profonde” e che questo disaccordo è stato registrato, con maggiore o minore intensità, fin dal 1974.
Per esempio, il 76% dei cittadini americani interrogati è convinto che “gli Stati Uniti giocano a fare il poliziotto del mondo più di quanto dovrebbero”, un’opinione opposta a quella del loro establishment.Non si tratta di un’affermazione generica: solo il 39% del pubblico (contro l’83% dei leader) sarebbe disposto a usare truppe americane per proteggere la Corea del Sud, solo il 35% per proteggere Taiwan, solo il 51% l’Arabia Saudita (di nuovo, nell’establishment la percentuale è l’83%) e solo il 52% per andare in soccorso di Israele (contro 79% tra i leader).
A questo punto non possiamo che chiederci: perché gli Stati Uniti non hanno il sistema sanitario nazionale, lo statuto dei lavoratori, una politica estera prudente e un bilancio della difesa inferiore a quella della pubblica istruzione? La risposta è semplice: la democrazia americana non funziona come dovrebbe. I meccanismi per trasformare le preferenze dei cittadini in azione politica sono grippati da tempo, per una serie di ragioni tra cui il sistema elettorale, che favorisce il potere del denaro sulla politica, è la questione principale.
I lobbisti sono diventati la vera classe dirigente di Washington: non solo l’amministrazione Bush ha affidato direttamente a loro il compito di scrivere le leggi (in particolare sull’energia) ma in generale hanno quattrini, professionalità e legami sufficienti per soffocare nella culla qualsiasi tentativo di toccare i privilegi dei loro clienti, dai sussidi agli zuccherieri fino alla tassazione sui profitti. Quando le cose si fanno serie, sono capaci di inventarsi gruppi di “cittadini” che protestano a difesa degli inquinatori o dei produttori di tabacco: si chiama Astroturf lobbying.
Certo, candidati locali che si rivolgono coraggiosamente agli elettori come il senatore del Minnesota Paul Wellstone, sfortunatamente deceduto qualche anno fa, sono riusciti a portare in Congresso proposte di riforma più coraggiose, ma la stragrande maggioranza di deputati e senatori pensa soltanto alla propria rielezione e al modo per sfruttare al meglio gli anni in cui resta in carica.Questa è l’opinione dell’uomo della strada, che non crede affatto che il governo degli Stati Uniti sia “a beneficio di tutti” ma piuttosto difenda chi è già ricco e potente (il 52% è d’accordo). Solo un terzo degli americani pensa che la classe politica tenga conto di ciò che pensano i cittadini (mentre il 62% è sicuro di venire ignorato). Dopo un breve periodo di entusiasmo per la riconquista di Camera e Senato da parte dei democratici, nel novembre 2006, oggi solo il 12% degli americani è convinto che il Congresso stia facendo un buon lavoro, mentre il 47% pensa che non faccia niente di buono (il resto è incerto).
Se i due partiti sono così impopolari, e George Bush gode di una reputazione solo marginalmente migliore di quella di Al Capone, come mai non nascono organizzazioni politiche più rappresentative delle preferenze dei cittadini? La risposta sta in una storica diffidenza degli americani verso i partiti politici: neppure un leader straordinariamente carismatico come Theodore Roosevelt riuscì a imporre un nuovo partito sulla scena dominata da repubblicani e democratici. L’ultima volta in cui un’organizzazione politica di nuova formazione è riuscita a soppiantare uno dei partiti esistenti è stato alla vigilia della guerra di Secessione, nel 1860, quando i repubblicani riuscirono a sfruttare il momento favorevole e a portare alla Casa Bianca Abraham Lincoln. Nei 147 anni successivi non è mai stato eletto un presidente di un terzo partito e i membri del Congresso eletti sotto le bandiere dei populisti o dei socialisti hanno avuto poca fortuna.
Questo duopolio è blindato dalle leggi elettorali, che con il sistema “chi vince piglia tutto” (cioè chi arriva primo in un collegio uninominale viene eletto) rende inutile presentare più di due candidati. Naturalmente, esiste il correttivo delle primarie ma si tratta di una soluzione debole: anche con questo metodo chi ha più soldi e più visibilità di solito vince. Non a caso il 62% dei cittadini americani auspica che si trovino “nuovi sistemi” per selezionare i candidati. L’interesse dei due partiti a non toccare nulla è un ostacolo quasi insuperabile a qualsiasi riforma.
Il problema è quindi la “strozzatura politica” che non permette alle opinioni progressiste di affermarsi, una rigidità del sistema che la concentrazione proprietaria nel campo dei media mantiene e rafforza. Gli stessi americani sono diventati più pessimisti negli ultimi anni: solo il 57% continua ad aver fiducia nella “saggezza politica” collettiva (è ancora una maggioranza, ma 10 punti in meno del livello degli anni Novanta e 20 punti in meno degli anni Sessanta).
Nonostante tutto questo, vediamo in queste settimane i giovani americani che si mobilitano, sperimentano, creano blog con milioni di lettori o associazioni che ottengono risultati nel sostegno a candidati nuovi come Barack Obama. In questo, sono favoriti da uno spirito civico che rimane forte e impone le dimissioni ai politici corrotti, esige trasparenza nel funzionamento delle istituzioni, applaude quando l’FBI mette sotto chiave un politico che si comporti come uno dei tanti maneggioni che hanno trovato rifugio nel parlamento italiano.

CHANGE vs. SOLUTIONS: quando non basta una sola parola

(da: CFP NEWS, Anno 4 Numero 116 – 22 febbraio 2008)

di Valentina Pasquali, Washington DC

Barack Obama attraversa gli Stati Uniti passando di comizio in comizio e si porta sempre dietro il cartello su cui è scritto CHANGE, in caratteri bianchi su sfondo blu. Anche Hillary Clinton viaggia per il paese per incontrare i propri sostenitori nei grandi raduni nei palasport. E anche lei ha con sé il proprio manifesto, su cui si legge SOLUTIONS in bianco su blu e con l’unica differenza di un bordo rosso.
Gli slogan elettorali hanno il compito di condensare in una parola il messaggio di un candidato, la sua personalità e i suoi programmi politici. In alcuni casi però anche la strategia promozionale meglio pensata deve arrendersi a problematiche che proprio non si riescono a ridurre ad una sola parola. Il caso di NAFTA (North American Trade Agreement) è indicativo; i due candidati stanno decidendo in queste ore come affrontarlo e la maniera in cui sceglieranno di parlarne nelle prossime due settimane mentre fanno campagna in Ohio e Texas sarà determinante nel voto del 4 marzo.

NAFTA, (in spagnolo Tratado de Libre Comercio de América del Norte o TLCAN), è l’accordo di libero scambio commerciale stipulato tra gli Stati Uniti, il Canada e il Messico ed entrato in vigore il 1 gennaio 1994. Il punto centrale del trattato era la progressiva eliminazione di tutte le barriere tariffarie fra i paesi che vi aderivano.

Fin dalle sue prime ore l’accordo suscitò un dibattito accanito tra coloro che intravedevano in esso la possibilità di un boom economico favorito dall’abbattimento delle barriere doganali (in particolare le grandi società multinazionali che ottennero l’accesso facilitato a tutti i mercati del Nord America) e coloro che temevano che il passaggio del trattato avrebbe avuto conseguenze nefaste sui lavoratori e sui contadini. In particolare provarono a ribellarsi i sindacati in Canada e Stati Uniti, spaventati che milioni di posti di lavoro si trasferissero in Messico dove i salari sono inferiori. E provarono ad opporsi anche i contadini in Messico, che temevano che la produzione agricola americana, fortemente sovvenzionata dal governo, invadesse il mercato messicano mettendo fuori gioco la controparte locale.

Dopo lunghe discussioni, il trattato fu ratificato negli Stati Uniti nel 1993, grazie in particolare alla determinazione del presidente dell’epoca Bill Clinton. Da allora sono passati quindici anni, ma nonostante questo le polemiche su NAFTA non si sono per nulla calmate. Il futuro dell’accordo di libero scambio sta diventando uno dei temi chiave della campagna per le primarie democratiche di quest’anno, in particolare in questi ultimi giorni in cui si sente sempre più spesso parlare di recessione e in cui il carrozzone elettorale sta attraversando una serie di stati a base industriale e oggi economicamente depressi, come il Wisconsin di martedì e l’Ohio del 4 marzo.

Entrambi i candidati del partito dell’asinello, Obama e Clinton, ripetono agli elettori ormai quasi ossessivamente che rinegoziare i termini di NAFTA in modo da tenere conto delle esigenze dei lavoratori impiegati nel settore industriale americano è tra le loro priorità assolute. Il tema NAFTA è stato una parte importante del comizio tenuto da Hillary Clinton durante la notte elettorale che è seguita al voto in Wisconsin. Parlando da Youngstown in Ohio, dove la Senatrice dello Stato di New York ha inaugurato la corsa verso le primarie del 4 marzo, Clinton ha dichiarato: “È ora di fare sul serio con NAFTA, perché non sta funzionando come dovrebbe per gli americani”. Obama, dal canto suo, torna sull’argomento ripetutamente, ed in particolare accusa Hillary di aver sostenuto, al tempo della sua ratifica, i contenuti del trattato ed il lavoro portato avanti dal marito Bill che permise il suo passaggio. Parlando dal Wisconsin il 13 febbraio, alla conclusione della Potomac Primary in Maryland, Virginia e Washington DC, Obama ha promesso ai suoi sostenitori; “Sapete, dopo che suo marito divenne firmatario di NAFTA, Clinton se ne andava in giro a raccontare che il trattato era una cosa meravigliosa, che avrebbe portato moltissimi benefici…Quando diventerò presidente, io non firmerò alcun altro accordo di libero scambio a meno che non contenga protezioni per l’ambiente e per i lavoratori americani”.

La battaglia su NAFTA non deve sorprendere. Al di là delle buone intenzioni di Clinton e Obama, tutti i sondaggi indicano che i lavoratori americani non vedono di buon occhio il trattato e sperano che il nuovo presidente si impegni a rinegoziarlo. Il Wall Street Journal scrive; “L’opinione dei democratici del Wisconsin a proposito del commercio internazionale illustra le ragioni per le quali sia Obama che Clinton hanno cercato di sottolineare il proprio scetticismo nei confronti del libero scambio…Sette democratici su dieci dichiarano che il commercio internazionale causa la perdita di posti di lavoro in Wisconsin”. Un sondaggio pubblicato il 20 febbraio dalla società Gallup ha rilevato che, per la prima volta dal marzo 2004, l’economia è considerata dagli elettori americani come il problema più importante, davanti alla guerra in Iraq. Il 34% degli intervistati la pensa in questa maniera, quasi il doppio del 18% registrato in gennaio.

Se queste tendenze d’opinione sono chiare come appaiono, c’è da chiedersi com’è mai Barak Obama, nel discorso fatto dal Texas a conclusione del voto in Wisconsin martedì, abbia scelto di accennare NAFTA solo brevemente, e per di più mettendolo in diretta relazione ai lavoratori dell’Ohio e non alla situazione dello stato in cui si trovava; “Siamo qui, perché ci sono lavoratori a Youngstown, Ohio, che hanno visto sparire un posto di lavoro dopo l’altro a causa di accordi di libero scambio malfatti come NAFTA”, ha detto il Senatore dell’Illinois.

Il problema è che la realtà non è affatto semplice: la retorica e le strategie elettorali si stanno scontrando con la diversità d’opinioni e di preoccupazioni che caratterizza un paese di dimensioni continentali come gli Stati Uniti. A quanto pare, il Texas ha un’opinione tutta sua degli effetti del NAFTA. Andrew Leonard di Salon riporta un commento fatto martedì sera da Jim Moore, analista politico e autore di The Bush’s Brain, un libro sullo stratega della carriera politica di George W. Bush Karl Rove: “Jim Moore ha suggerito che la decisione di Obama di accanirsi contro NAFTA non gli sarà d’aiuto in quella parte del Texas che confina con il Messico. In particolare questo è il caso delle quattro contee ispaniche che costituiscono la Lower Rio Grande Valley. Hidalgo County, soprattutto, sta vivendo un grande boom economico grazie a NAFTA.” Kyle Arnold scrive sul sito web The Monitor, che si occupa di politica locale texana, di come l’economia della regione sia cambiata in seguito all’introduzione di NAFTA; “Il trattato ha dato nuovo impulso all’industria e ha creato migliaia di posti di lavoro. Inoltre, l’economia messicana in crescita ha reso la valle una destinazione ambita dai turisti benestanti, un numero sempre in aumento. Oggi i visitatori messicani sono responsabili per più di un terzo degli scambi commerciali dell’area, secondo dati della Camera di Commercio di McAllen”.

Il punto qui non è di determinare le tante conseguenze dell’applicazione del NAFTA sull’economia del Nord America. Il punto è che Clinton e Obama si trovano di fronte a un dilemma. Da un lato, nella lotta per l’Ohio devono cercare di convincere gli elettori di essere vigorosamente contrari al NAFTA. Nel Texas del sud invece, la critica eccessiva del trattato potrebbe avere effetti opposti a quelli desiderati. “Che divertimento!” Scrive Leonard. “Per le prossime due settimane, vedremo Obama e Clinton passare il proprio tempo a distruggere NAFTA in Ohio senza mai nemmeno nominarlo in Texas”.

Il giornalista di Salon ha un’idea per obbligare i due candidati ad affrontare le diverse sfaccettature di questa problematica. Qualcuno dovrebbe domandargli; “Senatori, dai dati emerge che NAFTA ha causato la perdita di posti di lavoro in Ohio e la creazione di nuovi nel Texas del sud. Quale sarà l’approccio della vostra amministrazione nel bilanciare questi opposti interessi?” Difficilmente, di fronte ad una domanda di questo genere, i candidati alla nomination democratica potranno nascondersi dietro la retorica fatta di una sola parola, sia essa CHANGE o SOLUTIONS.

giovedì 21 febbraio 2008

Hillary vs Obama: Cuba




In quest'altro scorcio di dibattito texano, i due candidati si confrontano sul tema delle dimissioni di Fidel Castro.

Hillary vs Obama: Immigrazione



In questa parte del dibattito ospitato dalla University of Texas, Hillary e Obama si affrontano sul tema dell'immigrazione.

martedì 19 febbraio 2008

lunedì 18 febbraio 2008

Obama nella fabbrica di titanio RTI a Niles, nell'Ohio



Dal sito ufficiale di Barack Obama

domenica 17 febbraio 2008

I volontari di Obama alle Hawaii



Dal sito ufficiale di Barack Obama

venerdì 15 febbraio 2008

L'onda Obama


(da: CFP NEWS - Anno 4 Numero 115 – 15 febbraio 2008)
di Valentina Pasquali, Washington DC
Una fila lunga 17.500 persone attendeva paziente fin dalle prime ore del mattino di lunedì all’esterno del Comcast Center dell’Università del Maryland a College Park, in uno dei giorni più freddi dell’anno. Uomini e donne d’ogni colore ed età, muniti di sedie pieghevoli, cibarie e mazzi di carte da gioco, aspettavano il comizio di Barack Obama alla vigilia di quella che gli americani avevano soprannominato Potomac Primary, ovvero le elezioni che si sono tenute martedì 12 febbraio in Virginia, Maryland e nel Distretto di Columbia, lungo le sponde del fiume Potomac.

“Questo paese ha bisogno di una visione per il futuro”, mi dice Steve, studente universitario di economia e antropologia. E’ stato lui il primo ad arrivare ai cancelli di questo palazzo dello sport imponente, arrampicato su una collina al centro del campus universitario. Era qui già alle cinque della mattina. Avvolto in una coperta spessa nel tentativo di sconfiggere il gelo, Steve mi racconta; “Barack Obama è un politico che ispira la gente, e che può portare questo paese in una nuova direzione”.

Joyce, una donna di colore, sulla cinquantina e che lavora per l’ufficio marchi e brevetti del governo americano, confessa di essersi innamorata di Obama il giorno in cui il senatore dell’Illinois parlò alla Convention Nazionale Democratica del 2004, l’anno che vide la rielezione di Gorge W. Bush e la sconfitta del candidato democratico John Kerry. Lunedì, Joyce si è messa in fila alle sei, infagottata in un cappotto invernale color carota, larghi occhiali da sole che le coprono il viso e spillette con la faccia di Obama attaccate tutt’attorno al suo berretto di lana nera. “Non mi piace il suo atteggiamento,” dice riferendosi a Hillary Clinton, “parla dell’elezione come fosse suo diritto ereditario.”

Così come previsto da tutti i sondaggi condotti durante le ultime settimane, l’area metropolitana del Distretto di Columbia si è rivelata essere, nelle primarie di martedì, proprietà privata di Barack Obama. Il senatore dell’Illinois ha vinto in tutta la regione con margini consistenti e a Washington DC ha battuto Clinton con il 75% delle preferenze contro il 24% ottenuto dalla senatrice di New York. Di certo le caratteristiche demografiche della città ne facevano il luogo ideale per Obama; una popolosa comunità afro-americana mista ai bianchi benestanti, con alti livelli d’educazione e che lavorano per il governo, le organizzazioni internazionali e le università della capitale.

Nonostante il risultato del voto sul fiume Potomac fosse in parte scontato, Barack Obama è riuscito comunque a sorprendere. I risultati di martedì hanno dimostrato come il candidato democratico stia lentamente conquistando il sostegno di tutta la base del partito, prevalendo anche tra quei gruppi demografici – come le donne bianche o i democratici a basso reddito – che fino a questa settimana parevano rimanere sostenitori fedeli di Hillary Clinton.

Sylvia e Bella corrispondono perfettamente al profilo dell’elettore della ex-first lady. Sono donne bianche di mezz’età e lavorano per una scuola elementare pubblica in un sobborgo del Maryland. Nonostante questo, anche loro si sono svegliate prima dell’alba per andare a sentire il comizio del senatore dell’Illinois lunedì. “Obama può rappresentare un nuovo inizio per gli Stati Uniti”, mi dice Bella. “Io non ne posso più dell’alternanza Bush-Clinton-Bush”, le fa eco Sylvia.

John Dickerson scrive di questo sviluppo sul quotidiano on-line Slate; “In ognuna delle precedenti vittorie di Obama, la squadra di Clinton cercava di individuare un’eccezione; Obama ha vinto perché tal stato ha una presenza sproporzionata di elettori di colore, oppure perché la consultazione aveva la forma di caucus, tradizionalmente dominato dagli attivisti di partito”. Erano questi tentativi non solo di spiegare le sconfitte di Clinton, ma anche di suggerire che Barack Obama non avrebbe mai potuto vincere in una elezione generale in cui è necessario trovare il sostegno di coalizioni più ampie. “Mentre Obama comincia ad esercitare il suo fascino anche sull’elettorato Clinton, le sue vittorie paiono sempre meno come delle eccezioni…Questi successi elettorali regalano ad Obama nuove cartucce da usare nelle prossime primarie, perché mostrano che egli può costruire un consenso che unisca gente di razza, sesso e classe differenti”, spiega Dickerson.

Martedì, giorno d’elezioni, ai seggi è una sfilata continua di votanti, nonostante la temperatura sia abbondantemente sotto zero. La partecipazione al voto, che fin ora è stata elevata in tutto il paese, ha un significato particolare in questa città con la fissazione della politica. Grazie ad una corsa alla nomination democratica ancora tutta da decidersi, questa è la prima volta che la nazione presta attenzione al voto nella capitale. Washington DC è stata sempre considerata troppo liberal e troppo afro-americana perché i suoi residenti potessero avere un impatto sul voto nazionale (Nelle elezioni presidenziali del 2004 John Kerry portò a casa l’89% dei voti contro il 9% di George Bush. Secondo le statistiche ufficiali del US Census Bureau, nel 2006 la popolazione di Washington DC era per il 56.5% di colore, contro il 12,8% della media nazionale). Quest’anno invece, come Charles Babington dell’Associated Press ha scritto la settimana scorsa, la gente di qui ha avuto “la rara opportunità di contribuire a determinare il risultato di un’elezione presidenziale anziché esserne semplicemente ossessionati”.

Faccio visita ad alcuni seggi in giro per Washington e l’impressione che ne traggo conferma tendenze di voto simili a quelle poi mostrate dai risultati delle primarie in Maryland, Virginia e Distretto di Columbia, ed un trasporto paragonabile a quello che avevo visto pervadere la lunga fila di persone all’Università del Maryland lunedì mattina.

“E’ arrivato il momento per un cambiamento”, mi dice un’anziana signora di colore. La campagna di Barack Obama ha noleggiato alcuni pullman con lo scopo di andare a prendere a casa quegli elettori senza accesso ad altri mezzi di trasporto per portarli a votare. E’ stato salendo su uno di questi autobus che ho fatto la sua conoscenza. La signora mi dà l’indirizzo di casa ma si rifiuta di dirmi il proprio nome. Però non mostra alcuna reticenza a votare per Obama contro una candidata donna; “Non penso che una donna possa guidare questo paese”, ha dichiarato. “Siamo diventate più intelligenti negli ultimi anni, ma non così intelligenti”.

Nonostante l’onda crescente d’entusiasmo, Barack Obama dovrà fare ancora molte telefonate e bussare su molte porte se vuole conquistare davvero il cuore dei sostenitori di Clinton e vincere così la loro approvazione definitiva, in particolare per quanto riguarda gli elettori ispanici, che nel caso della Potomac Primary rappresentavano solo il 5% degli aventi diritto al voto. José è un democratico d’origine messicana che vive in Maryland, lavora in città e quasi non parla inglese. Il suo voto va a Clinton, o “Miss Hillary” come la chiama lui. “Me gusta mucho”, José confessa in spagnolo.

“Il problema è che non sanno ancora chi è Obama”, mi spiega un sindacalista ispanico di Los Angeles ad un evento organizzato a Washington DC dalla campagna di Obama per la serata di martedì. “Più gli ispanici lo conoscono, più lo apprezzano”, mi dice convinto mentre i sostenitori del senatore dell’Illinois sono radunati nel salone da ballo del Madison Hotel decorato di palloncini blu, rossi e bianchi. Bicchieri di vino alla mano, i presenti applaudono ai risultati che lentamente arrivano dal conteggio dei voti e appaiono sui grandi schermi TV appesi ai muri del salone, e al sindaco di DC Adrian Fenty che arriva di persona per tenere un discorso in sostegno alla candidatura di Obama.

La cosiddetta name recognition (ovvero la capacità di un candidato di far conoscere il proprio nome all’elettorato nazionale), rimane un problema per Barack Obama specialmente con la comunità ispanica, che ha una lunga storia con la famiglia Clinton e un particolare apprezzamento per l’ex-first lady, icona dei gloriosi anni novanta quando i benefici del boom economico si estesero ben oltre i sobborghi bianchi fino ai loro quartieri di lavoratori immigrati. Matilde è una giovane donna ispanica che lavora come estetista a Dupont Circle – fra i quartieri più eleganti di Washington DC; “Non ho ancora deciso”, mi ha detto alla fine della scorsa settimana quando le ho chiesto per chi avrebbe votato. “Mi piace Hillary. Però mi piace anche l’altro. Mio figlio sta cercando di convincermi a votare per lui. Com’ è che si chiama pure?” mi ha domandato.

Il voto ispanico rimarrà un elemento fondamentale fino a che la nomination democratica non sarà decisa ed è certamente il vantaggio più importante che rimane ancora a Clinton. Tutti si aspettano che Barack Obama concluda il mese di Febbraio in trionfo, dopo aver vinto le ultime otto consultazioni elettorali e quasi certamente conquistando anche le primarie della settimana prossima in Wisconsin e Hawaii. Però, quando Ohio e Texas andranno alle urne il 4 marzo, Obama dovrà mostrare di essere in grado di accattivare la popolazione eterogenea tipica degli stati più popolosi (fino ad ora Hillary Clinton ha li ha vinti quasi tutti, compresi California, New Jersey e New York), se vorrà metter mano sulla maggior parte dei 370 delegati che saranno in palio allora.

Quanto ai 17.500 fan scatenati del Comcast Center, conquistati dall’oratoria spiritosa e accattivante di Obama; il loro ruolo nelle elezioni presidenziali è ancora tutto da determinare. Secondo i dati pubblicati da Circle, un centro di ricerca che si occupa della partecipazione civica alla vita politica degli Stati Uniti, il 16% dei giovani al di sotto dei trent’anni ha votato nelle primarie del Super Tuesday, contro il 31% del resto della popolazione.

Alla fine del comizio di lunedì, mentre il pubblico fa la ola, Tim, un amico che mi ha accompagnato all’evento, mi grida nell’orecchio; “Obama è come una rockstar”. E indica le tante ragazzine, poco più che diciottenni, che urlano “I love you, I love you” al senatore dell’Illinois. La domanda è: si ricorderanno di votare?

- Fotografie originali, scattate da Valentina Pasquali -

Giovani e politica

(da: CFP NEWS - Anno 4 Numero 115 – 15 febbraio 2008)

di Fabrizio Tonello

Il ’68 diede il diritto di voto ai giovani americani che compivano 18 anni e le elezioni presidenziali del 1972 furono le prime in cui essi poterono esercitare questo diritto. Quell’anno votò il 52% dei cittadini fra 18 e 24 anni. Nel 2000, quel diritto di voto così prezioso e faticosamente conquistato fu esercitato solo dal 36% dei giovani, poco più di un terzo, molto meno della media dell’elettorato e in particolare del voto degli ultrasessantenni, due terzi dei quali si preoccupavano di andare a infilare la loro scheda nell’urna.
Da allora, la partecipazione giovanile –stimolata dalle politiche bellicose dell’amministrazione Bush- ha ricominciato ad aumentare e nel 2004 votò il 46,7% dei giovani, ben dieci punti percentuali in più (http://www.census.gov/prod/2006pubs/p20-556.pdf).
Quest’anno, dicono gli esperti, potrebbero andare a votare più del 50% degli aventi diritto fra i 18 e i 24 anni, uguagliando o superando il record del 1972.
Non si tratta di una discssione puramente accademica: il “fenomeno Obama”, cioè le migliaia di volontari che hanno contribuito ai successi della sua campagna elettorale nelle primarie, si regge soprattutto sui giovani e viene interpretato da molti giornali come una promessa di vittoria sicura per i democratici anche in novembre. Le cose sono però più complicate di quanto sembrino.
Se guardiamo alla partecipazione dei giovani in queste primarie di cui i mass media hanno dato un’immagine così “oceanica” troviamo in realtà delle cifre piuttosto deludenti. Per esempio, in Alabama ha votato il 19% dei giovani fino a 29 anni, contro il 36% di chi aveva più di 30 anni. In Arizona ha votato appena il 7%, contro il 25% degli altri elettori, in California il 17% contro il 32% degli adulti, a New York il 12% rispetto al 20% Solo in New Hampshire troviamo una partecipazione significativa dei giovani, il 43%, abbastanza vicina ma comunque inferiore al 55% del resto del corpo elettorale (e, fra l’altro, in New Hampshire ha vinto Hillary Clinton e non Obama).
Le cifre raccolte dal centro studi CIRCLE (si veda lo studio completo qui: (http://www.civicyouth.org/PopUps/PR_08_Super%20Tuesday.pdf) vanno tutte nella medesima direzione: quest’anno i giovani sono più mobilitati del solito ma restano comunque una componente minoritaria delle’elettorato: fra il 7 e il 14% della Virginia martedì scorso. Molto se la competizione avviene in ristrette assemblee di simpatizzanti (i caucus) con qualche migliaio di persone, poco se si deve vincere un’elezione a cui parteciperanno quasi 150 milioni di americani.
Un altro studio, questo del Pew Research Center (http://pewresearch.org/pubs/730/young-voters) dà cifre leggermente superiori: in Georgia, New Hampshire e Iowa i giovani sarebbero stati fra il 18 eil 22% di chi ha votato. Anche in questo caso, si tratta di cifre importanti per i democratici (che sembrano raccogliere quest’anno il 70% del consenso giovanile) ma non decisive: la “generazione Obama” (i 18-24 anni) conta circa 25 milioni di cittadini. Di questi hanno votato nel 2004 11,6 milioni. Anche supponendo che il turn-over aumenti di un quarto, che sarebbe un risultato straordinario, si può sperare al massimo in 14,5 milioni di voti da ripartire fra i due partiti. Ora, gli ultrasessantacinquenni che hanno votato nel 2004 erano 24 milioni e quest’anno, per ragioni puramente demografiche, saranno circa 27 milioni. Gli anziani troveranno sulla scheda il nome di un loro coetaneo, John McCain, con una reputazione ben meritata di eroe di guerra: se in questa classe d’età i consensi si divideranno 56 a 44 per i repubblicani, come avviene di solito, questo significa circa 3 milioni di voti di vantaggio per McCain. Il divario a favore dei democratici nelle classi di età più giovani verrà molto ridotto.
Occorre inoltre vedere come si ripartiranno geograficamente questi voti: come ben si sa, negli Stati Uniti voto popolare e voto dei “grandi elettori” nominati stato per stato possono non coincidere, come avvenne nel 2000 quando Al Gore ebbe una maggioranza di voti popolari ma fu sconfitto ugualmente. Quest’anno, i voti degli universitari del Connecticut e del Massachusetts non serviranno, perché quegli stati comiunque sono a maggioranza democratica e, ai fini dell’elezione del presidente, ottenere il 51% o l’80% non fa differenza. Ciò di cui hanno bisogno i democratici sono i voti dei ventenni dell’Ohio, del Wisconsin, del New Mexico, del Nevada e della Florida, tutti stati dove lo spostamento di poche migliaia o decine di migliaia di suffragi può decidere del risultato per tutta la nazione. Sfortunatamente, New Mexico, Nevada e Florida sono tre stati con una forte popolazione di pensionati, attirati laggiù dal clima mite e dai prezzi bassi: una composizione demografica che favorisce i repubblicani (che infatti hanno vinto in tutti e tre sia nel 2000 che nel 2004, con l’eccezione del New Mexico nel 2000). I democratici, se non commetteranno errori in autunno (come spesso accade) hanno dalla loro parte una partecipazione popolare e un entusiasmo che mancano ai repubblicani: in Virginia, martedì 12, Obama ha raccolto da solo 619.000 voti, parecchi di più di quelli ottenuti da McCain, Huckabee e Ron Paul insieme.
Dopo le ultime vittorie nelle primarie, la candidatura Obama sembra inarrestabile ma occorre capire come verrà recepita darebbe all’elettorato operaio e dalle donne a basso reddito. Nel 2004, per esempio, la percentuale di famiglie americane con un reddito annuo inferiore ai 50.000 dollari era del 38%. Tra i votanti, invece, chi era in questa fascia di reddito era solo il 34%: la sensazione, ancora una volta, di non trovare una rappresentanza politica adeguata sottrae preziosi consensi al partito democratico. Come si diceva già la settimana scorsa, una larga maggioranza dei democratici a basso reddito sosteneva Hillary e non è sicuro che siano disposti a dare il loro voto a Obama (visto come un candidato “alieno” nella corsa per la presidenza vera e propria. Per il senatore dell’Illinois, ormai passato in testa alle preferenze anche nei sondaggi nazionali) c’è però motivo di soddisfazione negli exit polls condotti ai seggi in Virginia: tra gli elettori democratici che guadagnano meno di 50.000 dollari l’anno, per la prima volta è Obama ad ottenere i maggiori consensi: 60% contro il 38% a Hillary. Anche tra gli anziani, per la prima volta, il nuovo front-runner è in testa: 54% contro 46% alla Clinton.

mercoledì 13 febbraio 2008

McCain: la mia guerra al terrorismo




In questa lunga intervista, John McCain espone il proprio punto di vista sulla guerra al terrorismo

martedì 12 febbraio 2008

venerdì 8 febbraio 2008

Ma e' davvero un voto in bianco e nero?

(da: CFP NEWS - Anno 4 Numero 114 – 8 febbraio 2008)
di Valentina Pasquali, Washington DC

Benché il governo americano stia rendendo sempre più rigide le proprie politiche sull’immigrazione, gli Stati Uniti rimangono senza dubbio una nazione multirazziale. Uno studio pubblicato dal Department of Homeland Security stima che circa 400 mila stranieri entrano nel paese legalmente ogni anno. A questo numero vanno aggiunti i 500 mila che attraversano il confine clandestinamente. In un’elezione come quella in corso dal risultato imprevedibile, le minoranze etniche potrebbero fare la differenza. “Non è da escludersi che gli elettori d’origine ispanica avranno un ruolo chiave nell’elezione del prossimo presidente degli Stati Uniti”, racconta a Julia Preston del New York Times Cesar Conde, vice-Presidente di Univision, il network in lingua spagnola più seguito nel nord-America.

Tra i cittadini americani di recente immigrazione, gli ispanici rappresentano il gruppo più numeroso. Il U.S. Census Bureau valuta che costoro fossero, nel 2005, oltre 42 milioni, ovvero il 14.4% della popolazione del paese. Ancora più significativo è il fatto che essi rappresentino una parte crescente dell’elettorato. Il sondaggista John Zogby scriveva già nel 2006; “Gli Ispanici erano il 5% dei 95 milioni di votanti nel 1996, il 6% di 105 milioni nel 2000, e l’8,5% di 122 milioni nel 2004”. Oggi si stima che 18.2 milioni di cittadini d’origine ispanica avranno diritto di voto nelle presidenziali di novembre.

L’aumento della partecipazione della popolazione ispano-americana alla politica statunitense è in gran parte causato dall’approccio intransigente dell’amministrazione Bush verso l’immigrazione. In particolare, gli ispanici non paiono gradire la malcelata retorica anti-messicana che emerge in ogni nuova proposta volta a bloccare l’accesso dei clandestini. Sergio Bendixen, un sondaggista di Miami che segue le tendenze d’opinione ispaniche per conto di Hillary Clinton, ha spiegato al New York Times che gli americani di origine ispanica considerano il voto come una strategia di autodifesa; “Il dibattito sull’immigrazione non è più volto alla ideazione di politiche efficienti; è sentito invece come uno scontro ideologico sulla presenza e l’identità degli ispanici in America”.

L’impatto di questa parte dell’elettorato ha cominciato a farsi sentire sin dalle primarie in Nevada e Carolina del Sud, e naturalmente nel Super Tuesday del 5 febbraio, quando ha votato un gruppo di stati che complessivamente ospitano il 60% della popolazione ispano-americana. In Nuovo Messico essi rappresentano un terzo della popolazione, mentre sono il 23% in California e il 17% in Arizona. Roberto Lovato scrive su New American Media, un sito web d’informazione a tema etnico; “Gli elettori ispanici hanno mandato un messaggio forte e chiaro ai candidati, agli osservatori e al paese intero: sono finiti i tempi dell’elettorato in bianco e nero”.

I risultati di martedì paiono indicare che Hillary Clinton mantiene il proprio vantaggio su Barack Obama nella lotta per il voto latino. Sfruttando un rapporto di lunga durata con la comunità ispanica, cementato durante gli anni di presidenza del marito Bill, la senatrice dello stato di New York ha fin qui avuto il sostegno di questo gruppo etnico in tutti gli stati che hanno tenuto le primarie.

In California l’ex-First Lady si è aggiudicata il 32% delle preferenze ispaniche in più di quelle ricevute da Obama. David Dayen scrive sul blog progressista Calitics, che si occupa di politica statale californiana; “Hillary Clinton ha vinto grazie alla campagna pubblicitaria lanciata sui media e al fatto che il suo cognome è conosciuto e rispettato per via del proprio legame con le politiche di Bill”. In particolare, spiega Dayen, questi sono stati elementi fondamentali in quei distretti elettorali intorno a Los Angeles che sono dominati da media che trasmettono in spagnolo e la cui popolazione, per caratteristiche demografiche ed economiche, è difficile da mobilitare dal basso, come ha cercato di fare il senatore dell’Illinois. Clinton pare aver vinto il voto ispanico anche in Arizona, New Jersey, New York e Nuovo Messico (anche se in realtà in questo stato del sud ovest americano si stanno ancora contando le schede).

Secondo gli osservatori americani, Obama può ritenersi in ogni caso soddisfatto per aver fatto meglio del previsto. Roberto Lovato su New American Media interpreta così il segnale elettorale; “I primi risultati che arrivano dalle urne paiono aver demolito l’idea che gli ispanici siano opposti all’idea di un candidato afro-americano”. Nella maggior parte degli stati che hanno votato nel Super Tuesday, Obama è riuscito a ottenere il sostegno degli ispanici in percentuali superiori al 26% ottenuto in Nevada il 19 gennaio scorso. Il senatore dell’Illinois avrebbe anche eroso il vantaggio di Clinton da un rapporto di 4 voti a 1, stimato nei sondaggi dell’ultima settimana, ad un più tirato 3 a 2.

I programmi politici dei candidati democratici sull’immigrazione si assomigliano molto e sia Hillary Clinton che Barack Obama sono in favore dell’estensione del permesso di soggiorno a quegli immigrati clandestini che già si trovano sul territorio statunitense, a patto naturalmente che costoro non conducano attività criminali.

Il rapporto tra i repubblicani e la comunità ispano-americana invece è più complicato. La volontà inflessibile, in particolare da parte di Mitt Romney e Mike Huckabee, di limitare il flusso di stranieri che entrano negli Stati Uniti sta alienando gli elettori ispanici. Paul Waldman di American Prospect, una pubblicazione ondine di tendenza liberal, spiega così la relazione tormentata dei repubblicani con il voto latino; “quando un partito ripete all’infinito che voi e la gente come voi siete il più grosso problema con cui la nazione si deve confrontare, diventa poi difficile riuscire a creare entusiasmo per i proprio candidati. Se il GOP continua in questo modo, gli ispanici repubblicani finiranno per essere come i gay repubblicani, un piccolo gruppo sotto assedio che conduce una battaglia quotidiana contro la dissonanza cognitiva, usati come capri espiatori dal proprio partito e presi in giro dagli amici per aver scelto di stare dalla parte di quelli che li detestano”.

Di conseguenza tutto fa pensare che un aumento della partecipazione degli ispanici alle elezioni presidenziali favorirà il partito democratico. Uno studio pubblicato in dicembre dal Pew Hispanic Center, un centro di ricerca con sede a Washington DC, rivela che il 57% di costoro si prepara a votare per il partito dell’asinello, contro il 23% che sosterrebbe i repubblicani.

La nomination di John McCain, che sembra essere ormai sicura, sarebbe forse vissuta dall’elettorato latino con minor preoccupazione di quelle di Huckabee e Romney. Il senatore dell’Arizona è conosciuto per aver dato il suo sostegno alla legge che, se approvata, avrebbe offerto agli immigrati clandestini il visto e che invece fu sconfitta l’anno passato dall’ala più conservatrice del suo partito. Non a caso, nelle primarie repubblicane McCain ha un vantaggio sostanziale nei confronti degli avversari di partito e si è aggiudicato le primarie di tutti gli stati che hanno una densità elevata di popolazione ispanica, come la Florida, la California, l’Arizona, il New Jersey e lo stato di New York.

Numeri e geografia dell’America nel dopo Supertuesday

(da: CFP NEWS - Anno 4 Numero 114 – 8 febbraio 2008)

I commentatori italiani di ciò che succede negli Stati Uniti sono fantasiosi, molti di loro scrivono in modo piacevole, sono diligenti nel compulsare New York Times e Washington Post ma hanno una certa difficoltà con i numeri e con le mappe. Per esempio, tutti i nostri giornali hanno ampiamente illustrato la vittoria di John McCain in campo repubblicano ma non hanno guardato alla mappa elettorale dell’America: è vero che il senatore ha vinto in 9 stati ma dove sono questi stati? E, soprattutto, come hanno votato nel 2000 e nel 2004?
Cominciamo dai tre dove McCain ha avuto più del 50% dei voti: New Jersey, Connecticut e New York, ovvero tre stati dove i repubblicani non vincono dai tempi di Reagan e Bush padre, cioè una generazione fa. Anche se i democratici presentassero come candidato Osama (e non Obama), in questi tre stati probabilmente sarebbero loro a prevalere (e, per l’elezione del Presidente, conta la somma dei delegati ottenuti stato per stato, non la somma dei voti popolari). Quindi, il fatto che McCain abbia ottenuto molti consensi sulla costa atlantica non migliora di un centimetro la sua posizione nella corsa di novembre per la Casa Bianca.
Proseguiamo con il nostro piccolo corso di geografia: gli altri sei stati dove il senatore dell’Arizona ha vinto sono, appunto, l’Arizona, seguito da Oklahoma e Missouri (tre stati che nel 2004 votarono per Bush) ma anche California, Illinois e Delaware dove, ugualmente, i candidati repubblicani hanno poche possibilità di vincere. Questo significa che, fino ad oggi, McCain non ha i voti dove potrebbe vincere e li ha dove è comunque destinato a perdere, chiunque sia il candidato democratico in novembre: un bel problema.
Le vittorie di Romney in sette stati e, soprattutto, di Mike Huckabee in cinque stati del Sud, mostrano che il problema di rapporti fra McCain e la base militante del partito non è ancora risolto. Certo, dalla sua parte stanno la reputazione di prigioniero di guerra, la sua aggressività in politica estera e il suo essere il “miglior candidato” dal punto di vista dell’eleggibilità quest’anno. Ma senza la base del partito arrivare alla Casa Bianca è difficile: il Paese, negli ultimi anni, si è polarizzato in maniera estrema (chi fosse interessato ai dati, veda qui: http://www.utetuniversita.it/scheda_opera.asp?DAPAG=HOME&ID_OPERA=3202).
Tra gli elettori repubblicani che si autodefiniscono conservatori, circa il 60% del totale, secondo gli exit polls, McCain ha ottenuto il 33% in California (Romney il 39%), il 41% in Connecticut (Romney il 44%). In Arkansas e Georgia, dove i conservatori dichiarati sono il 67% dei partecipanti alle primarie repubblicane, McCain ha ottenuto solo il 17% in Arkansas (Huckabee, sia pure favorito in quanto candidato locale il 62%) e il 23% in Georgia (Huckabee 43%). In Tennessee, dove si autodefinisce conservatore il 73% dei partecipanti alle primarie repubblicane, Huckabee ha ottenuto il 38% dei consensi di questo gruppo, Romney il 28% e McCain solo il 24%.
In vista della campagna vera e propria, in autunno, è decisivo avere migliaia e migliaia di volontari che vanno a bussare alla porta dei cittadini e cercano di convincerli a votare. Questo piccolo esercito di entusiasti viene reclutato tra le file dei membri più attivi del partito, quelli che si sentono più coinvolti dalle cause che il partito ha sostenuto in passato, più ideologicamente motivati. McCain è un candidato di immagine, che piace ai giornali e alle televisioni, ma non ha fin qui convinto i militanti di cui ha bisogno, soprattutto negli stati incerti, dove gli elettori sono divisi quasi esattamente a metà:

DIFFERENZA TRA I VOTI DEI DUE CANDIDATI MAGGIORI, 2004
New Mexico: 6.012
New Hampshire: 9.276
Iowa: 10.059
Wisconsin: 11.386

DIFFERENZA TRA I VOTI DEI DUE CANDIDATI MAGGIORI, 2000
New Mexico: 366
Florida: 537
Iowa: 4.200
Wisconsin: 5.712
New Hampshire: 7.211

E’ possibile che, al momento della decisione finale, gli elettori repubblicani decidano di votare comunque per il partito, chiunque sia il candidato ma è anche possibile che questo non accada, quanto meno non in misura sufficiente.

Veniamo ora ai democratici. Partiamo dai numeri della partecipazione alle primarie: in California sono andati a votare circa 2 milioni di repubblicani e 4 milioni di democratici, in Illinois circa 850.000 repubblicani contro 1,9 milioni di democratici, in New Jersey circa 500.000 repubblicani e il doppio di democratici.
Anche negli Stati più conservatori, la partecipazione è sempre stata più alta fra i sostenitori di Clinton e Obama che fra i repubblicani: solo mezzo milione di questi ultimi ha votato in Tennessee, contro 600.000 democratici; in Missouri, circa 600.000 repubblicani contro mezzo milione di democratici, in Arkansas e in Arizona hanno votato circa lo stesso numero di elettori dei due partiti. E’ vero che le ultime due elezioni presidenziali sono state vinte dai repubblicani prendendo meno voti dei democratici, per il meccanismo che li favorisce nel collegio elettorale, come ho spiegato nella prima newsletter di quest’anno, ma la partecipazione di quest’anno sembra preludere non a una serie di risicate vittorie a livello degli stati, ma a una sonora sconfitta, a meno che non ci sia, all’ultimo minuto, una fortissima mobilitazione dell’elettorato conservatore.
Ora, cosa potrebbe facilitare la mobilitazione dei repubblicani? L’andare a votare non per il loro candidato ma contro il candidato avversario e, da questo punto di vista, Hillary è il bersaglio ideale, perché anche a molti indipendenti non piace l’idea di un “ritorno” di Bill Clinton alla Casa Bianca (e questo sentimento si sta rafforzando, come si può vedere qui: http://people-press.org/reports/display.php3?ReportID=392).
L’odio accumulato nei confronti dei Clinton negli anni Novanta si traduce in una difficoltà di rapporto con l’elettorato maschile nel suo complesso: nelle primarie di martedì, il sostegno dei democratici bianchi e maschi è andato prevalentemente a Obama. Apparentemente la “linea del colore” è più facile da attraversare di della “linea di genere” (un po’ incentivati dal fatto che Obama sembra una rockstar abbronzata, non un ladro di macchine negro).
Ma le cose non sono così semplici: nel loro entusiasmo pro-Obama, i giornali italiani si sono soffermati sul grande sostegno di cui gode tra i giovani al di sotto dei 29 anni (verissimo). Però, si sono spesso dimenticati di guardare a quanti di questi giovani vanno effettivamente a votare: l’ultima volta è stato il 12% del corpo elettorale, mentre gli ultrasessantacinquenni costituiscono il 22% del corpo elettorale. Un esempio concreto dai risultati di martedi 5 febbraio: nello stato di New York, Obama ha raccolto il 56% dei consensi tra chi ha meno di 29 anni, contro il 43% di Hillary. Ma quest’ultima ha raccolto il 62% dei voti di chi ha più di 60 anni, contro il 36% di Obama. E poiché gli anziani costituivano quasi un terzo dei votanti, mentre i giovani solo il 15%, il risultato è stato un’ampia vittoria per la Clinton. Controprova: in Illinois, lo stato da cui proviene Obama, quest’ultimo ottiene larghe maggioranze in tutte le classi di età, tranne chi ha più di 65 anni, un segmento dell’elettorato dove i due principali candidati democratici sono alla pari con il 48% ciascuno.
Oltre che con gli anziani, Obama ha un problema strutturale non facile da risolvere con gli ispanici: su scala nazionale, sono circa 18 milioni i cittadini di origine ispanica che potrebbero votare in novembre. Martedì in California, dove sono quasi un terzo dell'elettorato hanno votato al 65% per Hillary e sono una componente importante del blocco democratico, in particolare in stati incerti come il New Mexico e la Florida. Obama, palesemente, sarebbe un candidato poco gradito, mentre quest’anno gli ispanici potrebbero votare all’80% democratico a causa dell’atteggiamento anti-immigrazione preso dai repubblicani (vedi l’articolo di Valentina Pasquali).
In sintesi: Hillary e Obama rappresentano due segmenti diversi dell'elettorato democratico, uno più "professionale-progressista-alto reddito" (che vota Obama) e uno più "femminile-moderato-conservatore" che vota Hillary. Per la prima volta, queste due subcoalizioni si cristallizzano durante le primarie attorno a candidati alternativi, all'incirca della stessa forza, e questo comporta seri rischi di rottura nel partito e nell'elettorato. Una candidatura Hillary farebbe ricadere gran parte dell’entusiasmo giovanile mobilitato per Obama in queste primarie, ma una candidatura Obama darebbe all’elettorato operaio e alle donne a basso reddito la sensazione, ancora una volta, di non trovare una rappresentanza politica adeguata nel partito democratico. Nel sondaggio del Pew research Center che abbiamo già citato (http://people-press.org/reports/display.php3?ReportID=392) si vede chiaramente che una larga maggioranza dei democratici a basso reddito (sotto i 27.000 euro lordi di introito annuo) sostiene Hillary: è il 55%, contro il 35% di Obama e questa percentuale tende ad aumentare leggermente, non a diminuire. Nella corsa per la presidenza, il vero asso nella manica di Hillary non è il marito Bill, o il sostegno dell’apparato ma la fedeltà che le dimostrano gli americani meno fortunati.

mercoledì 6 febbraio 2008

McCain: "No, You Can't"




Parodia di BarelyPolitical, contro John McCain.

martedì 5 febbraio 2008

Barack Obama a Chicago nella notte del SuperTuesday

Hillary - Il supermartedì




Toni trionfali per Hillary Clinton, che, forte del successo negli stati più popolosi, galvanizza i propri sostenitori.

lunedì 4 febbraio 2008

Obama contro la guerra




Lo spot di Obama più visto dagli americani. Trasmesso durante il Superbowl.

domenica 3 febbraio 2008

Donne per Obama



La first-lady della California Maria Shiver, la superstar televisiva Oprah Winfrey e Caroline Kennedy appaiono al fianco di Michelle Obama in un raduno a Los Angeles in sostegno di Barack Obama.

sabato 2 febbraio 2008

Hillary vs Obama: Reagan, il liberismo, l'affarista Rezko



In questo dibattito, registrato alla vigilia delle primarie del Supermartedì e delle stesse primarie in California, Hillary e Obama si confontano su alcuni temi spinosi: la figura del presidente Reagan, il rapporto di entrambi con l'affarista Rezko.

venerdì 1 febbraio 2008

Primarie americane: regole ed eccezioni

(da: CFP NEWS - Anno 4 Numero 113 – 1 febbraio 2008)
di Valentina Pasquali, Washington DC

Un’elezione dall’esito incerto come quella che si profila negli Stati Uniti può essere decisa dai dettagli tecnici del sistema di voto e dalla capacità dei candidati di trarne vantaggio. Le primarie sono avviate verso una doppia sfida Obama-Clinton e McCain-Romney che rischia di protrarsi fino all’estate, e nel frattempo i politici, gli osservatori ed il pubblico americano cercano di capire i meccanismi talvolta misteriosi che regolano la nomination per la corsa alla Casa Bianca.

I caucus del Nevada del 19 gennaio sono un buon esempio: nonostante Clinton avesse conquistato il 51% delle preferenze contro il 45% di Obama, alla fine della giornata il senatore dell’Illinois ha rilasciato dichiarazioni dai toni trionfanti: “Abbiamo recuperato 25 punti di svantaggio, fino ad arrivare oggi a conquistare un numero di delegati per la convention nazionale maggiore di quello di Hillary Clinton”. La campagna elettorale della Senatrice di New York ha immediatamente risposto; “Hillary Clinton ha vinto oggi i caucus in Nevada aggiudicandosi la maggioranza dei delegati in palio. La campagna di Obama si sbaglia. I delegati per la convention nazionale non saranno selezionati fino al 19 aprile”. Nelle stesse ore Jill Derby, segretario del Partito Democratico del Nevada, si affannava a spiegare ai media; “I calcoli che stanno circolando a proposito del numero dei delegati che verranno mandati alla convention nazionale sono basati sul presupposto che le preferenze dei delegati locali rimangano uguali fino ad aprile. Bisogna invece attendere che si tengano le convention di contea e di stato dove si sceglieranno i delegati che rappresenteranno il Nevada alla convention nazionale.”

Il sistema in vigore, antiquato e reso complesso dal federalismo che crea regole diverse di stato in stato, non piace a nessuno. Markos Moulistas non risparmia le critiche sul suo blog Daily Kos; “E’ una stronzata, un sistema che non ha senso. E non vedo l’ora, una volta che queste elezioni saranno finite, che s’intraprenda uno sforzo serio per riformare le primarie.” Fatto sta che per il momento i candidati 2008 alla presidenza degli Stati Uniti veranno scelti secondo le regole vigenti e vale la pena provare a capire come funzionino le cose.

Ufficialmente i due sfidanti che si contendono la Casa Bianca nelle elezioni generali di novembre sono nominati nelle convention nazionali dei rispettivi partiti, che si tengono tradizionalmente tra fine agosto e inizio settembre. Quest’anno la convention democratica avrà luogo tra il 25 e il 28 agosto a Denver in Colorado mentre quella repubblicana tra il primo e il quattro settembre a Minneapolis in Minnesota.

Alle convention partecipano i delegati nazionali dei due partiti, che determinano con il loro voto il candidato del partito per le elezioni generali. I delegati democratici che andranno a Denver sono 4.049. Il che significa che Clinton o Obama per vincere dovranno ottenere 2.025 voti. Nel caso dei repubblicani il numero dei delegati è inferiore; su un totale di 2.380 delegati, la maggioranza è fissata a quota 1.191. Per capirci, quando si parla di delegati s’intende un gruppo variegato d’individui politicamente attivi eletti, nominati, o membri di diritto di questa assemblea.

La maggior parte dei delegati che partecipano alle convention nazionali è selezionata in primavera durante le convention di contea e quelle di stato. Per poter accedere alle prime, un delegato deve ottenere dei voti nei caucus o nelle primarie. In sostanza, quando un iscritto di partito si reca al proprio seggio a votare o alle riunioni di partito a discutere, non sta direttamente scegliendo il candidato alla presidenza, ma sta invece dando mandato ad un numero di delegati di rappresentarlo nel seguito del processo elettorale.

Di norma, i delegati sono tenuti, di selezione in selezione, a rispettare la volontà popolare e a votare per la nomination secondo il desiderio espresso dai partecipanti alle primarie. In realtà in alcuni casi i delegati hanno diritto a modificare la propria decisione in qualsiasi momento. Molly Ball scrive sul quotidiano online Las Vegas Review Journal: “La campagna di Obama ha fatto i calcoli giusti ma fondati sul presupposto ipotetico che le convention di contea e di stato si tengano tutte in questo momento e che i delegati di seggio sostengano sempre lo stesso candidato, cosa che non sono tenuti a fare.”

Inoltre nella lunga corsa che dalle primarie porta alle convention alcuni candidati decidono di abbandonare la gara (John Edwards e Rudy Giuliani hanno preso tale decisione proprio questa settimana). Nel caso che questi abbiano comunque accumulato qualche delegato, una volta ritiratisi li lasciano senza un mandato preciso e liberi di votare per un altro candidato.
Infine esiste un numero di delegati che per definizione non è tenuto a rappresentare alcun mandato popolare diretto. Questi si chiamano unpledged delegates (dall’inglese; delegati non-impegnati), o super-delegati nel gergo usato dal partito democratico. Nel caso dei delegati si tratta di dirigenti di partito, amministratori a vari livelli. I repubblicani hanno una selezione più ampia che include anche politici eletti ai parlamenti nazionale e statali. Sono 796 i super-delegati che parteciperanno alla convention di Denver e 463 quelli che andranno a Minneapolis.

A complicare questa vicenda già di per se astrusa, si e’ aggiunta quest’anno una controversia nata all’interno di entrambi i partiti a proposito delle date di alcune primarie. Il Michigan e la Florida hanno deciso, contro il parere delle direzioni nazionali dei partiti, di anticipare le proprie elezioni nel tentativo di esercitare maggiore influenza sulla scelta della nomination. Le segreterie nazionali si sono però vendicate. Il partito democratico ha negato la partecipazione alla convention nazionale a tutti i delegati del Michigan e della Florida. I repubblicani ne faranno andare una metà e lasceranno a casa l’altra metà.

Questo non toglie che le primarie si siano tenute ugualmente sia in Michigan che in Florida, con una partecipazione significativa. E i delegati dei due stati proveranno comunque ad andare a Denver e a Minneapolis. Il sito web Electoral Vote, che segue le elezioni con un occhio per i dettagli più tecnici spiega: “quando arriverà il momento delle convention, tutti i delegati teoricamente privati del proprio voto si presenteranno e chiederanno di essere accettati. Se le nomination a quel punto saranno state decise, la cosa finirà lì. Se invece la corsa è ancora aperta, si aprirà probabilmente una lotta intestina per stabilire cosa fare di questi delegati”. Hillary Clinton (nonostante i candidati democratici abbiano deciso di non fare campagna elettorale) ha vinto sia in Michigan che in Florida. Non a caso, la Senatrice di New York ha cominciato a premere per restituire ai delegati degli stati in questione il loro posto alla convention d’agosto. Howard Wolfson, il portavoce di Clinton, ha dichiarato; “Possiamo davvero immaginare una convention nazionale con 48 delegazioni e non 50?” Per le stesse ragioni ma opposti interessi, Obama cercherà di difendere la decisione presa dalla segreteria nazionale. In casa repubblicana la situazione è diversa perché Romney ha vinto il Michigan e McCain ha conquistato martedì il voto della Florida. E’ probabile quindi che i due trovino un accordo per far andare tutti a Minneapolis.

Questo intricato sistema elettorale ha delle conseguenze rilevanti sull’organizzazione delle campagne elettorali. Le strategie per gli sfidanti dei due partiti sono diverse, perché sono diverse le regole d’attribuzione dei delegati. I democratici seguono un sistema proporzionale, i repubblicani quello “chi vince prende tutto”. Nei distretti in cui sono in palio un numero pari di delegati, se Obama e Clinton ottengono percentuali di voto non troppo diverse fra loro porteranno a casa lo stesso numero di delegati. Per Hillary Clinton e Barack Obama questo significa che debbono “investire le proprie risorse in quei distretti che assegnano un numero dispari di delegati e che quindi offrano l’opportunità di vincerne almeno uno di più”, scrive Adam Nagourney sul New York Times.

Il partito repubblicano ha adottato invece un sistema maggioritario in cui il vincitore conquista tutti i delegati di un certo stato. Dunque è meglio concentrare gli sforzi su quegli stati che assegnano il numero maggiore di delegati, che normalmente sono quelli più popolosi. Ma non sempre questo è vero. Esiste una regola che attribuisce più delegati a quegli stati che tradizionalmente votano repubblicano alle elezioni generali. Ad esempio il Missouri, con una popolazione minore di quella del New Jersey, ha un numero di delegati superiore perchè votò repubblicano nelle presidenziali del 2004.

Grazie a tale differenza nelle regole seguite dai due partiti, i candidati repubblicani accumulano delegati più velocemente e John McCain potrebbe arrivare ad una vittoria già il 5 febbraio. Obama e Clinton rischiano invece di disputarsi delegato per delegato, fino alla convention di Denver.

Le regole e le eccezioni non finiscono di certo qui. Insomma, benvenuti negli Stati Uniti d’America.

Ascesa e caduta della Bipartisanship

(da: CFP NEWS - Anno 4 Numero 113 – 1 febbraio 2008)

Si potrebbe chiamarla “unità nazionale”, o “grande coalizione”, o “largo consenso”: è l’idea di mettere insieme, in genere per un periodo limitato e su obiettivi specifici, forze di ispirazione politica opposta, magari dopo campagne elettorali in cui i partiti si sono combattuti senza esclusione di colpi. Storicamente, il caso più frequente è quello delle guerre: democratici e repubblicani, conservatori e laburisti, democristiani e comunisti, socialdemocratici e cristiano-sociali si sono ritrovati a governare fianco a fianco, in situazioni in cui tenere elezioni regolari non era possibile, oppure era giudicato inopportuno per evitare ogni intralcio allo sforzo bellico.
Così, Winston Churchill formò un governo che aveva al proprio interno i principali leader laburisti, il generale de Gaulle un governo provvisorio con dentro i comunisti francesi e, in Italia, abbiamo avuto l’esperienza dei governi del CNL durante, e subito dopo, la Resistenza. In tempo di pace, ci sono le esperienze della prima Grosse Koalition tedesca, quella del 1966 che vide insieme i cristiano-democratici con i socialdemocratici di Willy Brandt, seguita da quella che si è formata dopo il “pareggio” alle ultime elezioni, portando nel 2005 a un governo presieduto da Angela Merkel.
La popolarità in Italia del concetto di Bipartisanship viene da una malcelata ammirazione per la tradizione americana di consenso sulle scelte principali di politica estera. Come vedremo, tuttavia, questa tradizione è una invenzione recente e ha funzionato solo per brevi periodi. Per quanto riguarda la politica interna, si sono spesso formate coalizioni centriste su provvedimenti ad hoc ma mai veri e propri governi che includessero entrambi i grandi partiti.
Se guardiamo alle origini degli Stati Uniti, la politica estera era forse il tema di maggiore scontro tra federalisti (filoinglesi) e antifederalisti (filofrancesi). L’amministrazione Adams (1797-1801) rischiò la guerra con la Francia per il suo atteggiamento di sostegno alla Gran Bretagna. A sua volta, l’amministrazione Madison (1809-1813) dichiarò guerra agli inglesi, subendo inizialmente una umiliante sconfitta con la perdita di Washington e l’incendio della Casa Bianca appena costruita. Alcuni successi militari americani, più tardi, permisero la firma di un trattato di pace ma il prezzo pagato dai federalisti (che erano stati contrari alla guerra) fu la scomparsa del partito.
Neppure si può parlare di politica estera bipartisan nella fase di espansione a fine Ottocento, quando la guerra di Cuba contro la Spagna suscitò un vasto entusiasmo nel Paese e suscitò ambizioni coloniali nel Pacifico (dopo le Hawai, gli Stati Uniti conquistarono le Filippine stroncando una forte guerriglia nazionalista). Al contrario, la politica del partito repubblicano (prima con William McKinley e poi con Theodore Roosevelt) fu sempre osteggiata dai democratici, che dopo aver vinto le elezioni nel 1912 nominarono segretario di Stato l’antimperialista William Jennings Bryan.
La partecipazione alla prima guerra mondiale, fortemente voluta dal presidente democratico Woodrow Wilson, spinse verso l’isolazionismo il partito repubblicano e solo nel 1945 si aprì una fase di collaborazione tra i due partiti, resa necessaria dalla guerra fredda con l’Unione Sovietica. Fu nel periodo 1945-1953, quando i democratici controllavano la Casa Bianca ma i repubblicani si rafforzarono in Congresso, che i due partiti trovarono un’intesa sulla costruzione delle organizzazioni multilaterali come l’Onu, il Fondo Monetario, la Banca Mondiale. Non solo: rinunciando all’isolazionismo, la maggioranza dei repubblicani accettò il riarmo, il sostegno alla Grecia e alla Turchia, il ponte aereo per rifornire i settori occidentali di Berlino, la guerra di Corea.
La sconfitta nelle elezioni del 1952, quando fu eletto alla presidenza il repubblicano Eisenhower, permise altri dieci anni di collaborazione in politica estera, con i democratici (maggioranza alla Camera e al Senato) che recitavano il ruolo dei “falchi”, sempre disposti a finanziare nuovi programmi nucleari, nuovi interventi nel mondo e nuove operazioni clandestine della CIA.
La rottura avviene sul Vietnam, che segna la fine della politica estera bipartisan per ben 40 anni. Malgrado occasionali convergenze, infatti, da allora i democratici sono sempre stati reticenti a seguire i repubblicani nel loro nuovo atteggiamento “imperiale”, che ci fosse da negoziare con l’Unione Sovietica o da reagire contro il terrorismo islamico. Le votazioni quasi unanimi dopo l’11 settembre sono state più apparenza che sostanza: forse l’amministrazione Bush sarebbe riuscita a mantenere una politica estera bipartisan se avesse rinunciato a invadere l’Iraq ma la scelta di impegnare invece il Paese in una nuova guerra di durata indefinita non poteva che far crollare immediatamento il fragile consenso costruito in Congresso sull’Afghanistan.
Il mio giudizio è quindi che i partiti si sono polarizzati e la stessa società americana si è divisa in due campi contrapposti. Può darsi che, in futuro, ci sia un’inversione di tendenza: quest’anno sia Obama che McCain cercano di darsi un’immagine “conciliante” per attirare i voti degli elettori indipendenti. Per il momento, i dati raccontano una storia di progressiva radicalizzazione dei repubblicani e dei democratici.
Nel 1970, per esempio, i deputati democratici votarono secondo le indicazioni del loro partito solo nel 58% dei casi, quelli repubblicani nel 60%. Nel 1980 le percentuali furono del 69% per i deputati democratici e del 71% per quelli repubblicani. L’elezione di Ronald Reagan portò a un rapido aumento della coesione: nel 1985 i membri repubblicani del Congresso avevano, in media, una percentuale di fedeltà del 75,5% nei voti di Camera e Senato. Un ulteriore balzo in avanti viene registrato negli anni Novanta, Così, nel 1993-94, i senatori democratici hanno votato per le proposte di legge dell’amministrazione Clinton nell’85,3% dei casi, mentre i repubblicani hanno votato contro nell’81,6% dei casi.
Nel 2003-2004 e 2005-2006, troviamo una disciplina superiore da parte dei senatori repubblicani (che votano con Bush nel 91,8% e 87,2% dei casi) mentre i democratici, pur compatti, seguono la linea del partito rispettivamente nell’84,9% e nell’87,1% delle votazioni.
Alla Camera, dove i repubblicani erano in maggioranza anche nel 2001-2002, i deputati manifestano un livello di disciplina forse mai raggiunto nella storia americana, sfiorando o superando il 90% di voti a favore dell’amministrazione nell’arco dei sei anni 2001-2006. I democratici mostrano una coesione minore, fra l’85 e l’88 per cento, ma ancora elevata. Un solo esempio: nel periodo 2005-2006 (il Congresso eletto nel novembre 2004) troviamo ben 98 deputati che votano con il proprio partito almeno nel 95% dei casi. Escludendo due deputati che hanno partecipato a sole 27 votazioni su oltre 1200, troviamo nei primi 20 posti nella graduatoria della disciplina di gruppo 18 repubblicani e 2 democratici, questi ultimi al 19° e al 20° posto. Questi sono i deputati che hanno votato dal 100% al 96,6% dei casi come prescrivevano i rispettivi whip.
L’analisi del voto di deputati e senatori ci dice che, nel lungo periodo, i repubblicani sono maggiormente motivati e compatti: la media del periodo è al Senato l’86,5% di voti senza defezioni e alla Camera raggiunge l’87%. Malgrado iniziative eccezionalmente controverse nel Paese, come l’impeachment di Bill Clinton nel 1998-99 e la guerra in Iraq nel 2003, il partito è riuscito quasi sempre a far votare i propri parlamentari a favore delle scelte della leadership.
Questa analisi cosa ci permette di concludere? Innanzitutto che solo paesi con una classe dirigente relativamente coesa, dotata di spirito pubblico e di grande rispetto per le istituzioni possono affrontare periodi di “grande coalizione”. Questi periodi sono in genere brevi, imposti da un’emergenza bellica, e si concludono quando uno dei due partiti maggiori decide di farsi interprete dei malumori che crescono nel Paese. Nelle elezioni del 1945 i laburisti furono beneficiari del desiderio di voltare pagina, malgrado i conservatori avessero come leader l’eroe che aveva portato il Paese alla vittoria: Winston Churchill. Occorre, inoltre, che nella società ci sia un altrettanto forte desiderio di cooperazione, e di sperimentazione di strade nuove: il bipolarismo radicalizza e irrigidisce le posizioni non solo dei partiti ma anche degli attivisti e dei cittadini: gli accordi di vertice sono quindi estremamente difficili (tanto più in un’epoca in cui i leader, la mattina, leggono i sondaggi ancora prima di bere il caffè).
In Italia esistono tutte queste condizioni?