venerdì 22 febbraio 2008

Stati Uniti: un Paese socialdemocratico?

(da: CFP NEWS, Anno 4 Numero 116 – 22 febbraio 2008)

di Fabrizio Tonello

Da alcuni anni, negli Stati Uniti è maturato un lento ma profondo cambiamento di opinioni, valori e atteggiamenti verso temi che interessano da vicino anche noi: i rapporti fra cittadini e governo, le sorti del welfare state, il ruolo degli imprenditori e dei sindacati. L’entusiasmo per candidati “nuovi” (sia Obama che McCain non erano certo le scelte degli apparati di partito) è solo un aspetto di questo mutamento, di cui le cronache politiche che invadono i giornali italiani ignorano quasi tutto.
La ragione sta nel fatto che i media concentrano la loro attenzione sull’aspetto competitivo e personalistico delle elezioni (chi è avanti nei sondaggi, chi vince nel tale caucus, chi ha fatto una gaffe ecc.) mentre si disinteressano quasi completamente dei programmi dei candidati e di quanto questi rispondano alla richiesta politica che viene dai cittadini. In realtà, questo disinteresse è meno frutto di scarsa professionalità da parte dei gioralisti di quanto sia un indizio del deficit democratico che affligge la nazione americana. Un deficit democratico che si potrebbe descrivere così: il sistema politico è assai poco efficiente nel trasformare le richieste dell’opinione pubblica in policies adeguate.
Questa situazione non è nuova, ma oggi disponiamo di uno strumento per metterla meglio a fuoco: un’indagine del Pew Research Center, uno dei più rispettati centri di ricerca sull’opinione pubblica, sull’arco di vent’anni, fra il 1987 e il 2007: Trends in Political Values and Core Attitudes: 1987-2007, http://people-press.org/reports/display.php3?ReportID=312 . Da questo lavoro emerge che negli Stati Uniti c’è stato un netto spostamento a sinistra: gli americani sono diventati più tolleranti e aperti nelle relazioni tra le razze, più diffidenti nei confronti delle grandi imprese, più disponibili a sperimentare soluzioni basate sul settore pubblico rispetto a quello privato. Un solo esempio: mentre in Italia si moltiplicano gli attacchi contro la sanità pubblica, due terzi degli americani si dichiarano favorevoli a un sistema sanitario nazionale, al posto di quello basato sulle assicurazioni private che esiste oggi.
In un certo senso, la maggioranza dei cittadini degli Stati Uniti è oggi assai più vicina alle tesi della socialdemocrazia europea storica di quanto non lo sia al proprio Congresso o al presidente Bush. L’unico terreno dove la distanza fra Europa e Stati Uniti rimane molto grande è quello della religione: il nostro continente è assai più laico.
Cominciamo dai risultati più sorprendenti: sette americani su dieci sono convinti che "Il governo dovrebbe prendersi cura di coloro che non sono autosufficienti", una percentuale che non quadra con l’immagine stereotipata degli Stati Uniti come paese crudele e indifferente alla sorte dei più deboli. Il sondaggio chiedeva anche: "Il governo dovrebbe aiutare chi ha bisogno, anche se questo significa un maggiore debito pubblico?" La risposta del 54% è positiva, con un aumento di 13 punti percentuali rispetto al 1990 (si prega di trasmettere i risultati a Bruxelles e alla Banca Centrale Europea.
Nell’arco degli ultimi vent’anni, tutte le guerre condotte dalla destra contro il multiculturalismo e l’omosessualità sono fallite: se nel 1987 il 51% degli interrogati era d’accordo con l’affermazione: "I consigli scolastici dovrebbero avere il diritto di licenziare gli insegnanti omosessuali", oggi questa percentuale si è ridotta al 28%. Troppo, naturalmente, ma il passo in avanti è stato enorme. Così pure l’atteggiamento nei confronti delle relazioni tra bianchi e neri si è completamente rovesciato: vent’anni fa erano una minoranza gli americani favorevoli a matrimoni o fidanzamenti tra giovani di razze diverse (48%), oggi sono l’83%. Non c’è dubbio che le forze intolleranti e bigotte che trovano la loro espressione nel partito repubblicano hanno dovuto masticare amaro nel constatare quanto le nomine di afroamericani come Colin Powell e Condoleeza Rice alla guida della diplomazia abbiano favorito la tolleranza e l’integrazione che oggi vanno a vantaggio di Barack Obama.
Dal 1980 ad oggi, gli americani hanno avuto un Presidente democratico solo per 8 anni e anche Clinton era probabilmente il democratico più conservatore dai tempi di Al Smith, nel 1928. Per il resto, ci sono state soltanto amministrazioni repubblicane che vantavano quotidianamente il loro legami col Big Business. Dopo un quarto di secolo di culto del mercato, il 70% degli americani è convinto che le corporation “facciano troppi profitti” e il 68% è d’accordo sul fatto che “i sindacati sono necessari per proteggere il lavoratore”.
Infine, guardiamo al problema centrale del rapporto fra il resto del mondo e gli Stati Uniti: la propensione di questi ultimi ad una politica militare attivistica, con il mantenimento di basi e uomini ai quattro angoli del globo, dall’Afghanistan a Cuba, dall’Italia al Giappone. Una diversa indagine, del Chicago Council on Global Affairs, indica che “le divergenze di vedute tra le opinoni dei leader e quelle del pubblico per quanto riguarda la politica estera tendono ad essere frequenti e, in molti casi, piuttosto profonde” e che questo disaccordo è stato registrato, con maggiore o minore intensità, fin dal 1974.
Per esempio, il 76% dei cittadini americani interrogati è convinto che “gli Stati Uniti giocano a fare il poliziotto del mondo più di quanto dovrebbero”, un’opinione opposta a quella del loro establishment.Non si tratta di un’affermazione generica: solo il 39% del pubblico (contro l’83% dei leader) sarebbe disposto a usare truppe americane per proteggere la Corea del Sud, solo il 35% per proteggere Taiwan, solo il 51% l’Arabia Saudita (di nuovo, nell’establishment la percentuale è l’83%) e solo il 52% per andare in soccorso di Israele (contro 79% tra i leader).
A questo punto non possiamo che chiederci: perché gli Stati Uniti non hanno il sistema sanitario nazionale, lo statuto dei lavoratori, una politica estera prudente e un bilancio della difesa inferiore a quella della pubblica istruzione? La risposta è semplice: la democrazia americana non funziona come dovrebbe. I meccanismi per trasformare le preferenze dei cittadini in azione politica sono grippati da tempo, per una serie di ragioni tra cui il sistema elettorale, che favorisce il potere del denaro sulla politica, è la questione principale.
I lobbisti sono diventati la vera classe dirigente di Washington: non solo l’amministrazione Bush ha affidato direttamente a loro il compito di scrivere le leggi (in particolare sull’energia) ma in generale hanno quattrini, professionalità e legami sufficienti per soffocare nella culla qualsiasi tentativo di toccare i privilegi dei loro clienti, dai sussidi agli zuccherieri fino alla tassazione sui profitti. Quando le cose si fanno serie, sono capaci di inventarsi gruppi di “cittadini” che protestano a difesa degli inquinatori o dei produttori di tabacco: si chiama Astroturf lobbying.
Certo, candidati locali che si rivolgono coraggiosamente agli elettori come il senatore del Minnesota Paul Wellstone, sfortunatamente deceduto qualche anno fa, sono riusciti a portare in Congresso proposte di riforma più coraggiose, ma la stragrande maggioranza di deputati e senatori pensa soltanto alla propria rielezione e al modo per sfruttare al meglio gli anni in cui resta in carica.Questa è l’opinione dell’uomo della strada, che non crede affatto che il governo degli Stati Uniti sia “a beneficio di tutti” ma piuttosto difenda chi è già ricco e potente (il 52% è d’accordo). Solo un terzo degli americani pensa che la classe politica tenga conto di ciò che pensano i cittadini (mentre il 62% è sicuro di venire ignorato). Dopo un breve periodo di entusiasmo per la riconquista di Camera e Senato da parte dei democratici, nel novembre 2006, oggi solo il 12% degli americani è convinto che il Congresso stia facendo un buon lavoro, mentre il 47% pensa che non faccia niente di buono (il resto è incerto).
Se i due partiti sono così impopolari, e George Bush gode di una reputazione solo marginalmente migliore di quella di Al Capone, come mai non nascono organizzazioni politiche più rappresentative delle preferenze dei cittadini? La risposta sta in una storica diffidenza degli americani verso i partiti politici: neppure un leader straordinariamente carismatico come Theodore Roosevelt riuscì a imporre un nuovo partito sulla scena dominata da repubblicani e democratici. L’ultima volta in cui un’organizzazione politica di nuova formazione è riuscita a soppiantare uno dei partiti esistenti è stato alla vigilia della guerra di Secessione, nel 1860, quando i repubblicani riuscirono a sfruttare il momento favorevole e a portare alla Casa Bianca Abraham Lincoln. Nei 147 anni successivi non è mai stato eletto un presidente di un terzo partito e i membri del Congresso eletti sotto le bandiere dei populisti o dei socialisti hanno avuto poca fortuna.
Questo duopolio è blindato dalle leggi elettorali, che con il sistema “chi vince piglia tutto” (cioè chi arriva primo in un collegio uninominale viene eletto) rende inutile presentare più di due candidati. Naturalmente, esiste il correttivo delle primarie ma si tratta di una soluzione debole: anche con questo metodo chi ha più soldi e più visibilità di solito vince. Non a caso il 62% dei cittadini americani auspica che si trovino “nuovi sistemi” per selezionare i candidati. L’interesse dei due partiti a non toccare nulla è un ostacolo quasi insuperabile a qualsiasi riforma.
Il problema è quindi la “strozzatura politica” che non permette alle opinioni progressiste di affermarsi, una rigidità del sistema che la concentrazione proprietaria nel campo dei media mantiene e rafforza. Gli stessi americani sono diventati più pessimisti negli ultimi anni: solo il 57% continua ad aver fiducia nella “saggezza politica” collettiva (è ancora una maggioranza, ma 10 punti in meno del livello degli anni Novanta e 20 punti in meno degli anni Sessanta).
Nonostante tutto questo, vediamo in queste settimane i giovani americani che si mobilitano, sperimentano, creano blog con milioni di lettori o associazioni che ottengono risultati nel sostegno a candidati nuovi come Barack Obama. In questo, sono favoriti da uno spirito civico che rimane forte e impone le dimissioni ai politici corrotti, esige trasparenza nel funzionamento delle istituzioni, applaude quando l’FBI mette sotto chiave un politico che si comporti come uno dei tanti maneggioni che hanno trovato rifugio nel parlamento italiano.