(da: CFP NEWS - Anno 4 Numero 114 – 8 febbraio 2008)
I commentatori italiani di ciò che succede negli Stati Uniti sono fantasiosi, molti di loro scrivono in modo piacevole, sono diligenti nel compulsare New York Times e Washington Post ma hanno una certa difficoltà con i numeri e con le mappe. Per esempio, tutti i nostri giornali hanno ampiamente illustrato la vittoria di John McCain in campo repubblicano ma non hanno guardato alla mappa elettorale dell’America: è vero che il senatore ha vinto in 9 stati ma dove sono questi stati? E, soprattutto, come hanno votato nel 2000 e nel 2004?
Cominciamo dai tre dove McCain ha avuto più del 50% dei voti: New Jersey, Connecticut e New York, ovvero tre stati dove i repubblicani non vincono dai tempi di Reagan e Bush padre, cioè una generazione fa. Anche se i democratici presentassero come candidato Osama (e non Obama), in questi tre stati probabilmente sarebbero loro a prevalere (e, per l’elezione del Presidente, conta la somma dei delegati ottenuti stato per stato, non la somma dei voti popolari). Quindi, il fatto che McCain abbia ottenuto molti consensi sulla costa atlantica non migliora di un centimetro la sua posizione nella corsa di novembre per la Casa Bianca.
Proseguiamo con il nostro piccolo corso di geografia: gli altri sei stati dove il senatore dell’Arizona ha vinto sono, appunto, l’Arizona, seguito da Oklahoma e Missouri (tre stati che nel 2004 votarono per Bush) ma anche California, Illinois e Delaware dove, ugualmente, i candidati repubblicani hanno poche possibilità di vincere. Questo significa che, fino ad oggi, McCain non ha i voti dove potrebbe vincere e li ha dove è comunque destinato a perdere, chiunque sia il candidato democratico in novembre: un bel problema.
Le vittorie di Romney in sette stati e, soprattutto, di Mike Huckabee in cinque stati del Sud, mostrano che il problema di rapporti fra McCain e la base militante del partito non è ancora risolto. Certo, dalla sua parte stanno la reputazione di prigioniero di guerra, la sua aggressività in politica estera e il suo essere il “miglior candidato” dal punto di vista dell’eleggibilità quest’anno. Ma senza la base del partito arrivare alla Casa Bianca è difficile: il Paese, negli ultimi anni, si è polarizzato in maniera estrema (chi fosse interessato ai dati, veda qui: http://www.utetuniversita.it/scheda_opera.asp?DAPAG=HOME&ID_OPERA=3202).
Tra gli elettori repubblicani che si autodefiniscono conservatori, circa il 60% del totale, secondo gli exit polls, McCain ha ottenuto il 33% in California (Romney il 39%), il 41% in Connecticut (Romney il 44%). In Arkansas e Georgia, dove i conservatori dichiarati sono il 67% dei partecipanti alle primarie repubblicane, McCain ha ottenuto solo il 17% in Arkansas (Huckabee, sia pure favorito in quanto candidato locale il 62%) e il 23% in Georgia (Huckabee 43%). In Tennessee, dove si autodefinisce conservatore il 73% dei partecipanti alle primarie repubblicane, Huckabee ha ottenuto il 38% dei consensi di questo gruppo, Romney il 28% e McCain solo il 24%.
In vista della campagna vera e propria, in autunno, è decisivo avere migliaia e migliaia di volontari che vanno a bussare alla porta dei cittadini e cercano di convincerli a votare. Questo piccolo esercito di entusiasti viene reclutato tra le file dei membri più attivi del partito, quelli che si sentono più coinvolti dalle cause che il partito ha sostenuto in passato, più ideologicamente motivati. McCain è un candidato di immagine, che piace ai giornali e alle televisioni, ma non ha fin qui convinto i militanti di cui ha bisogno, soprattutto negli stati incerti, dove gli elettori sono divisi quasi esattamente a metà:
DIFFERENZA TRA I VOTI DEI DUE CANDIDATI MAGGIORI, 2004
New Mexico: 6.012
New Hampshire: 9.276
Iowa: 10.059
Wisconsin: 11.386
DIFFERENZA TRA I VOTI DEI DUE CANDIDATI MAGGIORI, 2000
New Mexico: 366
Florida: 537
Iowa: 4.200
Wisconsin: 5.712
New Hampshire: 7.211
E’ possibile che, al momento della decisione finale, gli elettori repubblicani decidano di votare comunque per il partito, chiunque sia il candidato ma è anche possibile che questo non accada, quanto meno non in misura sufficiente.
Veniamo ora ai democratici. Partiamo dai numeri della partecipazione alle primarie: in California sono andati a votare circa 2 milioni di repubblicani e 4 milioni di democratici, in Illinois circa 850.000 repubblicani contro 1,9 milioni di democratici, in New Jersey circa 500.000 repubblicani e il doppio di democratici.
Anche negli Stati più conservatori, la partecipazione è sempre stata più alta fra i sostenitori di Clinton e Obama che fra i repubblicani: solo mezzo milione di questi ultimi ha votato in Tennessee, contro 600.000 democratici; in Missouri, circa 600.000 repubblicani contro mezzo milione di democratici, in Arkansas e in Arizona hanno votato circa lo stesso numero di elettori dei due partiti. E’ vero che le ultime due elezioni presidenziali sono state vinte dai repubblicani prendendo meno voti dei democratici, per il meccanismo che li favorisce nel collegio elettorale, come ho spiegato nella prima newsletter di quest’anno, ma la partecipazione di quest’anno sembra preludere non a una serie di risicate vittorie a livello degli stati, ma a una sonora sconfitta, a meno che non ci sia, all’ultimo minuto, una fortissima mobilitazione dell’elettorato conservatore.
Ora, cosa potrebbe facilitare la mobilitazione dei repubblicani? L’andare a votare non per il loro candidato ma contro il candidato avversario e, da questo punto di vista, Hillary è il bersaglio ideale, perché anche a molti indipendenti non piace l’idea di un “ritorno” di Bill Clinton alla Casa Bianca (e questo sentimento si sta rafforzando, come si può vedere qui: http://people-press.org/reports/display.php3?ReportID=392).
L’odio accumulato nei confronti dei Clinton negli anni Novanta si traduce in una difficoltà di rapporto con l’elettorato maschile nel suo complesso: nelle primarie di martedì, il sostegno dei democratici bianchi e maschi è andato prevalentemente a Obama. Apparentemente la “linea del colore” è più facile da attraversare di della “linea di genere” (un po’ incentivati dal fatto che Obama sembra una rockstar abbronzata, non un ladro di macchine negro).
Ma le cose non sono così semplici: nel loro entusiasmo pro-Obama, i giornali italiani si sono soffermati sul grande sostegno di cui gode tra i giovani al di sotto dei 29 anni (verissimo). Però, si sono spesso dimenticati di guardare a quanti di questi giovani vanno effettivamente a votare: l’ultima volta è stato il 12% del corpo elettorale, mentre gli ultrasessantacinquenni costituiscono il 22% del corpo elettorale. Un esempio concreto dai risultati di martedi 5 febbraio: nello stato di New York, Obama ha raccolto il 56% dei consensi tra chi ha meno di 29 anni, contro il 43% di Hillary. Ma quest’ultima ha raccolto il 62% dei voti di chi ha più di 60 anni, contro il 36% di Obama. E poiché gli anziani costituivano quasi un terzo dei votanti, mentre i giovani solo il 15%, il risultato è stato un’ampia vittoria per la Clinton. Controprova: in Illinois, lo stato da cui proviene Obama, quest’ultimo ottiene larghe maggioranze in tutte le classi di età, tranne chi ha più di 65 anni, un segmento dell’elettorato dove i due principali candidati democratici sono alla pari con il 48% ciascuno.
Oltre che con gli anziani, Obama ha un problema strutturale non facile da risolvere con gli ispanici: su scala nazionale, sono circa 18 milioni i cittadini di origine ispanica che potrebbero votare in novembre. Martedì in California, dove sono quasi un terzo dell'elettorato hanno votato al 65% per Hillary e sono una componente importante del blocco democratico, in particolare in stati incerti come il New Mexico e la Florida. Obama, palesemente, sarebbe un candidato poco gradito, mentre quest’anno gli ispanici potrebbero votare all’80% democratico a causa dell’atteggiamento anti-immigrazione preso dai repubblicani (vedi l’articolo di Valentina Pasquali).
In sintesi: Hillary e Obama rappresentano due segmenti diversi dell'elettorato democratico, uno più "professionale-progressista-alto reddito" (che vota Obama) e uno più "femminile-moderato-conservatore" che vota Hillary. Per la prima volta, queste due subcoalizioni si cristallizzano durante le primarie attorno a candidati alternativi, all'incirca della stessa forza, e questo comporta seri rischi di rottura nel partito e nell'elettorato. Una candidatura Hillary farebbe ricadere gran parte dell’entusiasmo giovanile mobilitato per Obama in queste primarie, ma una candidatura Obama darebbe all’elettorato operaio e alle donne a basso reddito la sensazione, ancora una volta, di non trovare una rappresentanza politica adeguata nel partito democratico. Nel sondaggio del Pew research Center che abbiamo già citato (http://people-press.org/reports/display.php3?ReportID=392) si vede chiaramente che una larga maggioranza dei democratici a basso reddito (sotto i 27.000 euro lordi di introito annuo) sostiene Hillary: è il 55%, contro il 35% di Obama e questa percentuale tende ad aumentare leggermente, non a diminuire. Nella corsa per la presidenza, il vero asso nella manica di Hillary non è il marito Bill, o il sostegno dell’apparato ma la fedeltà che le dimostrano gli americani meno fortunati.