sabato 28 giugno 2008

Uniti per il cambiamento




Da Unity (New Hampshire) l'intervento di Hillary Clinton. L'appoggio ad Obama è totale.

venerdì 27 giugno 2008

Obama e Veltroni

Naturalmente i giornali italiani non se ne sono accorti ma a Barack Obama è bastata una decina di giorni da “candidato a pieno titolo” per veltronizzarsi. Ovvero: ha rotto con la sinistra del partito, ha preso posizioni deboli e opportunistiche su temi importanti come le intercettazioni telefoniche e, infine, ha permesso al suo avversario di dettare l’agenda della campagna elettorale. Quasi un record per un candidato acclamato come il Messia per tutta la primavera.Il primo motivo di tensione con l’area di cyber attivisti che è statadeterminante per la sua vittoria (e che sono assai più a sinistra dei notabili del partito) è stata una legge fortemente voluta dall’amministrazione Bush che concede l’immunità da ogni procedimento giudiziario alle compagnie telefoniche che hanno effettuato ascolti telefonici illegali (al contrario dell’Italia, dove solo la magistratura può ordinare le intercettazioni, negli Stati Uniti dopo l’11 settembre, FBI, CIA e altre agenzie governative hanno messo in opera immense reti di controllo fuorilegge, vagamente giustificate in nome della “sicurezza nazionale”).La legge ha trovato i repubblicani compattamente favorevoli e una parte dei democratici disposti al “compromesso” per non apparire poco patriottici in campagna elettorale. Fra i senatori disposti a inghiottire il pasticcio c’è, almeno finora, anche Barack Obama. La “blogosfera” è invece ferocemente contraria a questa amnistia mascherata per le attività illegali di Bush e Cheney.Il secondo punto di tensione è apparso ieri con la sentenza della Corte Suprema sul diritto di portare armi. La sentenza costituzionalizza in senso reazionario quella che era stata fin qui un’area grigia della legislazione americana e cioè riconosce un diritto quasi assoluto (derivato dal II emendamento) al possesso di armi da fuoco. La Corte si è divisa 5 a 4 e l’estensore della sentenza, per la maggioranza, è stato il giudice Anthony Scalia (sempre lo stesso simpatizzante di Tamerlano di cui parlavamo la settimana scorsa).Naturalmente, i progressisti sono sempre stati per una legislazione sulle armi di tipo europeo, quindi molto restrittiva, anche per limitare i danni che le armi da fuoco infliggono alla salute pubblica (nelle stesse ore in cui veniva emanata la sentenza, un impiegato del Kentucky uccideva 5 colleghi e poi si suicidava). E cosa ha dichiarato, invece, Obama commentando la sentenza della Corte Suprema? Di aver sempre “creduto nel diritto individuale di portare armi”, una trasparente apertura verso le lobby di fanatici possessori di armi da fuoco che sono un pezzo importante dell’apparato repubblicano.Ma queste potrebbero essere divergenze minori, temi secondari su cui il candidato realista cerca di corazzarsi contro i prevedibili attacchi avversari. Il problema che emerge nelle discussioni su DailyKos o sullo Huffington Post è la mollezza di Obama nel definirsi come candidato, la sua incapacità (fin qui) di offrire slogan credibili e di prendere impegni che mobilitino i cittadini. Malgrado la preoccupazione dominante dell’80% degli americani sia l’economia, Obama non ha ancora avanzato proposte concrete né sul terreno dell’aumento della benzina né su quello della crisi bancaria, limitandosi a criticare le proposte di McCain. Il risultato è che rimane effettivamente in testa nei sondaggi, ma con il ristretto margine 45% a 41% mentre il suo partito viene plebiscitato dagli elettori, quanto meno nelle intenzioni di voto. In altre parole, i candidati democratici alla Camera e al Senato godono di una media nazionale del 53% delle intenzioni di voto mentre il loro leader messianico sta 8 punti indietro: come mai? La ragione è che per il momento Obama è un candidato che piace ai media e riscalda le platee ma il suo spessore politico deve ancora essere mostrato al grande pubblico. Non c’è che da sperare nella lunga campagna elettorale che ancora lo separa dal voto del 4 novembre: nei prossimi quattro mesi è obbligatorio de-veltronizzarsi.
Fabrizio Tonello

A che punto è l'Iraq?

Washington D.C. – L’esplosione avvenuta martedì a Sadr City ha ripresentato le debolezze che affligono l’Iraq e ne rendono incerto il futuro, nonostante il relativo miglioramento delle condizioni di sicurezza registrato recentemente.Gli osservatori attribuiscono la diminuzione della violenza alla cosidetta “surge”, l’aumento del numero delle forze americane ordinata un anno fà dal Presidente Bush. Stephan Biddle e Vali Nasr, due ricercatori del Council on Foreign Relations (CFR), sono rientrati la settimana scorsa da un viaggio di ricognizione attraverso l’Iraq e hanno presentato alla stampa le proprie riflessioni. Biddle e Nasr hanno rilevato che, grazie al maggior numero di soldati statunitensi, al coinvolgimento crescente delle truppe irachene, e ad una serie di cessate-il-fuoco concordati negli ultimi mesi tra il governo e le diverse milizie attive nel paese, l’aumentata sicurezza sta consentendo all’Iraq di cominciare a dedicarsi alle attività di ricostruzione. Molti dei progressi attestati, però, potrebbero interrompersi e la situazione rimane delicata. Secondo Biddle, “la sfida più importante ora è di riuscire a far rispettare i cessate-il-fuoco”.In questo contesto di relativa calma, l’Iraq verrà investito nei prossimi mesi da una serie di sviluppi che potrebbero portare ad un consolidamento dei progressi fatti, o al contrario, ad un ritorno al caos degli ultimi anni. Innanzitutto sono in corso le trattative sull’Accordo sullo Status delle Forze (cosidetto SOFA) che regola le relazioni tra Washington e Baghdad e che gli Stati Uniti vogliono firmare entro la fine dell’anno, prima che scada il mandato delle Nazioni Unite. I contorni delle trattative rimangono misteriosi; “Quello che si sente dire qui è che gli Americani vogliono stabilire un numero elevato di basi militari, chiedono l’immunità giudiziaria per i soldati americani, completa libertà di condurre operazioni militari dovunque nel paese e di detenere chiunque ritengano necessario”, mi racconta Nishant Dahiya, che è a Baghdad come producer per National Public Radio (NPR). Gli Iracheni, da un lato, sono preoccupati delle conseguenze di tale accordo sulla propria sovranità, dall’altro il governo si rende conto di essere ancora dipendente da Washington.Al contempo, l’Iraq sta cercando di organizzare le elezioni provinciali. Il parlamento deve passare una legge elettorale, che al momento è bloccata da lotte interne. “Se, e quando, le elezioni verranno organizzate,” mi spiega Dahiya, “bisognerà aspettarsi una ridistribuzione del potere.” Le Sahwa, milizie sunnite finanziate dagli Stati Uniti perchè contribuissero alla lotta contro Al Quaeda, dovrebbero conquistare posizioni nella provincia di Anbar. Da parte sciita, il movimento di Muqtada al Sadr, che non prese parte all’ultima consultazione elettorale, pare intenzionato a partecipare alla prossima. “Integrare i Sunniti nella politica nazionale è un fattore decisivo”, sostiene Dahiya. Così come sarebbe importante convincere Sadr ad abbandonare le armi, considerato che il suo movimento ha un sostegno popolare enorme tra gli sciiti poveri, che rappresentano una grossa parte dell’elettorato.
Infine, non bisogna dimenticarsi dell’Iran, che un rapporto del Dipartimento della Difesa americano accusa di finanziare, armare e addestrare milizie sciite anti-governative. Per quanto alcune di queste relazioni siano reali e datino ai tempi del regime sunnita di Saddam Hussein, quando i combattenti sciiti trovarono riparo in Iran, è anche vero che dovrebbe essere nell’interesse di Teheran vedere l’Iraq stabilizzarsi. “Visto il rapporto difficile con gli Stati Uniti, gli Iraniani desiderano che le truppe statunitensi rimangano invischiate in una situazione difficile in Iraq, oppure, al contrario, che vengano cacciate dalla regione del tutto,” mi dice Dahiya.Mentre il paese attraversa questa difficile transizione politica, bisognerà osservare, nelle prossime settimane, l’effetto di un cambiamento a livello militare. Infatti, entro metà luglio, il numero delle truppe a stelle e strisce verrà riportato a livelli appena superiori a quelli dell’inizio del 2007. La decisione di ritirare i propri soldati dall’Iraq potrebbe diventare ancor più marcata a partire da novembre, nel caso che il candidato democratico Barack Obama vinca le elezioni per la presidenza. Tale riduzione delle truppe pone una serie di domande sul futuro del paese. Vali Nasr di CFR sostiene che il miglioramento delle condizioni di sicurezza non dovrebbe far pensare che gli Americani possano ritirarsi più facilmente. “Molti dei sucessi degli ultimi tempi dipendono dalla presenza dell’esercito statunitense”, ha detto Nasr. Ad esempio, nonostante l’esercito iracheno stia assumendo un ruolo progressivamente più importante, solo una piccola percentuale delle truppe locali paiono essere pronte per sostiture i soldati statunitensi. Uno studio del Government Accountability Office pubblicato martedì ha rilevato che solo il 10% dei soldati iracheni fin qui addestrati sarebbe in grado di proseguire il proprio lavoro senza il sostegno degli Americani.Schiacciato tra l’Iran, gli Stati Uniti, forti rivalità interne fra Sciiti e Sunniti, e Al Quaeda che ultimamente è silenziosa ma pare stia semplicemente riorganizzandosi, con un esercito ancora debole ed un sistema politico molto fragile, l’Iraq rimane un paese ad alto rischio di implosione e guerra civile. “Al momento le tensioni sono sedate, ma nulla è stato risolto,” conclude Dahya. L’invasione americana del 2003, è ormai chiaro a tutti, ha scatenato un inferno. Meno chiaro è il modo in cui l’Iraq possa venirne fuori evitando ulteriori bagni di sangue.
Valentina Pasquali

sabato 21 giugno 2008

5 "segreti" su Barack Obama



Da un popolare programma della CBS, "cinque cose che forse non sappiamo" su Barak Obama.

venerdì 20 giugno 2008

Gli americani e il prezzo della benzina

Washington D.C. – Nel marzo 1999 la rivista umoristica The Onion pubblicava sul proprio sito web una infografica celebrativa della “grande abbondanza di petrolio”, ironizzando su cosa avrebbero fatto gli americani per sfruttare l’inesauribile disponibilità di benzina di quei giorni. Il primo marzo di quell’anno il prezzo della benzina in America era di 1,10 dollari al gallone (circa 30 centesimi di dollaro al litro), il più basso registrato in venti anni. The Onion prevedeva che, per godere di tale surplus, gli americani avrebbero guidato la macchina dalla camera da letto al frigorifero, a veicolo fermo avrebbero sgasato per un paio d’ore ogni sera prima di andare a dormire, e avrebbero risparmiato sul conto della spesa utilizzando benzina anziché latte per annegare i cereali a colazione.A quasi dieci anni di distanza, il petrolio costa oggi 135 dollari al barile, che si traduce in 4,31 dollari al gallone (ovvero 1,14 dollari al litro, o circa 60 centesimi di euro) dal benzinaio dietro casa, e gli americani sono tornati a comprare il latte regolarmente. Un sondaggio condotto dalla Quinnipac University in New Jersey, e pubblicato il 12 giugno, offre una fotografia accurata dei sentimenti degli americani a proposito del prezzo della benzina; il 46% degli elettori contattati ha detto di considerare l’economia come la preoccupazione principale, seguita a distanza dalla guerra in Iraq con il 23%. Tra le varie tematiche economiche, il 41% degli intervistati ha dichiarato che il prezzo della benzina è quella che li colpisce più duramente, con un secondo posto distaccato che va, con il 19% delle preferenze, ai costi per la sanità. In un altro recente sondaggio, condotto il 15 giugno da Washington Post e ABC News, il 77% degli americani ha confessato che l’aumento del prezzo della benzina è stato causa diretta di inattesi problemi finanziari per la propria famiglia.Tale inquietudine non deve sorprendere, considerato che la società americana è fondata sull’utilizzo indiscriminato delle fonti di energia, prima tra tutte il petrolio. Secondo dati della CIA, gli Stati Uniti ne assorbono quasi 21 milioni di barili al giorno. L’Unione Europea è al secondo posto con 14 milioni e cinquencentomila barili. Altrettanto significativi sono i numeri a proposito del consumo quotidiano pro-capite. Negli Stati Uniti, la media è di 11,3 litri al giorno. Negli altri paesi appartententi all’OCSE, questa cifra scende a 5,3 litri al giorno, e nel terzo mondo il consumo giornaliero pro-capite di petrolio è di appena 0,75 litri al giorno. Naturalmente le preoccupazioni dei cittadini americani cominciano ad influenzare il dibattito politico e la campagna elettorale 2008, e si riflettono nelle nuove proposte di Barack Obama e John McCain. Nonostante sia considerato un repubblicano moderato e quasi ambientalista, McCain non sembra offrire una visione convincente in tema di energia, e la gran parte delle idee che propone non sono altro che tentativi di aumentare l’offerta di greggio aprendo nuovi pozzi petroliferi, possibilmente non in Medio Oriente. È significativa in questo senso una posizione da lui presa di recente, e riproposta da George W. Bush, di combattere il rialzo del prezzo del greggio lasciando maggior libertà agli stati dell’Unione e alle compagnie petrolifere di condurre esplorazioni sui fondali al largo delle coste statunitensi. Va detto che, per il momento, McCain rimane contrario a nuovi scavi nell’Arctic National Wildlife Refuge, un parco nazionale in Alaska che da anni l’Amministrazione Bush prova ad aprire alle attività dell’industria del petrolio. Tra le altre proposte avanzate negli ultimi mesi dal candidato repubblicano alla Casa Bianca, e che aveva trovato il sostegno anche di Hillary Clinton, la più controversa è stata quella di una sospensione estiva della tassa federale sulla benzina. Nei giorni immediatamente successivi alla presentazione dell’idea, un gruppo di 200 economisti fra i quali Joseph Stiglitz, ha firmato una lettera in cui si dichiarava che la moratoria avrebbe portato benefici solo all’industria petrolifera e che avrebbe contribuito ad un ulteriore incremento del budget federale. Calcolando che la sospensione del pagamento dei 18,4 cent al gallone destinati alle casse federali avrebbe garantito un risparmio al singolo utente di soli 30 dollari, Barack Obama ha ridicolizzato la proposta. Del resto, il programma per l’energia del Senatore dell’Illinois non potrebbe essere più diverso. Fondato su un sostanzioso intervento governativo, il piano da 15 miliardi di dollari l’anno proposto da Obama verrebbe finanziato attraverso l’imposizione di un sistema di cap-and-trade per limitare le emissioni industriali di ossido di carbonio. I 150 miliardi di dollari così raccolti verrebbero utilizzati, nel corso di 10 anni, per sviluppare alternative al petrolio, dall’energia eolica a quella solare e, potenzialmente, nucleare. Dal recente sondaggio di Washington Post/ABC News emerge che gli elettori preferiscono, per ora, l’approccio di Obama. Il 50% degli intervistati dichiara di apprezzare le proposte in tema di energia e prezzo della benzina del Senatore dell’Illinois, mentre solo il 30% guardano positivamente alle idee di John McCain. Va notata però una mancanza sostanziale nei programmi di entrambi. Si parla assai poco di riduzione complessiva dei consumi. Considerato lo sviluppo di paesi come la Cina e l’India, e la quantità di risorse che tale sviluppo richiede, i paesi occidentali saranno obbligati a rivedere le proprie politiche energetiche, in particolare nel caso degli Stati Uniti, la cui economia è tra tutte la più intensiva nell’uso di energia. Paradossalmente, ci sta pensando proprio il prezzo della benzina a ridurre i consumi in America. Il 55% degli Americani, e il 72% di coloro che si dichiarano più colpiti dal rincaro del prezzo del petrolio, ha confessato al Washington Post/ABC News di aver già diminuito il numero di chilometri percorsi in automobile.
Valentina Pasquali

Sospendere i processi: Berlusconi e Clinton

Contrariamente a quanto molti amici scrivono, l’idea di sospendere i processi a carico delle massime cariche dello Stato fino a che gli accusati restano in carica non è “inaudita” nelle democrazie occidentali. La Francia ha approvato una legge (molto ad personam, a dire il vero) durante la presidenza Chirac e, soprattutto, c’è il caso di Bill Clinton, che nel 1996 chiese alla Corte Suprema di rinviare fino alla fine del suo mandato lo svolgimento della causa civile per molestie sessuali promossa contro di lui dalla signorina Paula Jones (i termini per l’azione penale erano scaduti). In questo caso, le posizioni erano invertite rispetto a quelle italiane: il partito democratico era per rinviare il processo (civile, non penale, si badi bene) e il centrodestra era furiosamente deciso a processare Clinton ad ogni costo (le due tesi sono riassunte nell’eccellente pamphlet del famoso pubblico ministero Vincent Bugliosi).A differenza dell’Italia, però, Clinton non chiese affatto al Congresso di varare una legge che lo mettesse al riparo dai processi, legge che sarebbe stata incostituzionale esattamente come la nostra legge 140 del 20 giugno 2003, annullata dalla Corte Costituzionale nel 2004, più nota come “lodo Schifani”. Fu costretto a mandare i suoi avvocati davanti alla Corte Suprema dove questi chiesero rispettosamente ai nove giudici di prendere in considerazione la perdita di tempo e di concentrazione che un processo comportava, danneggiando gli affari di Stato. E quale fu la risposta dei giudici? Gli risero in faccia.Durante quegli scambi di opinioni con gli avvocati che vengono chiamati oral arguments, il giudice Scalia disse: “Vediamo presidenti che vanno a cavallo, tagliano la legna, vanno a pescare, giocano a golf e così via (…) se gli avvocati del Presidente possono garantire che non lo vedremo mai più giocare a golf per il resto del suo mandato potremmo prendere sul serio la loro richiesta di sospensione del processo” (13 gennaio 1997). Scalia non è iscritto a Magistratura Democratica: le sue posizioni giudiziarie sono, grosso modo, affini a quelle di Torquemada e le sue simpatie politiche vanno a Tamerlano.Con la sentenza Clinton versus Jones, la Corte Suprema fu unanime (caso rarissimo negli ultimi 30 anni) nel respingere la richiesta di sospensione. Il processo andò avanti e, da un suo ramo collaterale, nacque più tardi il caso Clinton-Lewinsky, con relativo processo per impeachment, nel quale Clinton fu poi assolto (resoconto completo nel mio libro La nuova macchina dell’informazione).C’è un altro aspetto del problema: mercoledì 18 giugno, il Senato italiano ha votato un emendamento che sospende i processi per una serie di reati commessi fino al 2002. Ora, supponiamo che Clinton avesse chiesto al Senato una leggina per sospendere tutti i processi d’America per reati commessi fino al 1992, cosa sarebbe successo?Nell’epoca della Tolleranza Zero, in cui a New York chi beveva una bottiglietta di birra sulla pubblica via veniva arrestato e processato immediatamente, una proposta del genere avrebbe avuto una sorte prevedibile: in Senato, se mai un senatore amico della famiglia Clinton avesse avuto lo stomaco di chiedere la votazione, il risultato sarebbe stato 99 a 0 (con il presentatore dell’emendamento astenuto per decenza).Il giorno stesso, i membri del governo avrebbero attivato una procedura prevista dal XXV emendamento della Costituzione: la rimozione del Presidente dalla sua carica per “incapacità a svolgere i doveri del suo ufficio”. Questo emendamento, ratificato nel 1967, ha lo scopo di garantire la continuità del governo nel caso il presidente sia gravemente ammalato (era accaduto a Woodrow Wilson, colpito da un ictus nel 1919), colpito da senilità o da pazzia: tutte ragioni che non consentono la sua rimozione attraverso la complicata procedura dell’impeachment.Poiché un Presidente che pensasse di attaccare i giudici, sospendere i processi e procurarsi un’immunità che la legge non gli offre dev’essere palesemente fuori di senno, i membri del gabinetto di Clinton, dal ministro della Giustizia Janet Reno al Vicepresidente Al Gore avrebbero indirizzato ai leader della Camera e del Senato la dichiarazione richiesta dall’emendamento che Clinton era “incapace di svolgere i doveri del suo ufficio” e, ipso facto, Gore sarebbe diventato Presidente (“the Vice President shall immediately assume the powers and duties of the office as Acting President”). In caso di resistenza da parte di Clinton, nella forma di una lettera in cui avrebbe sostenuto di essere sano di mente (anche se politicamente un paria) sarebbe stato il Congresso a decidere, a maggioranza di due terzi, sulla questione. Chissà come sarebbe andata, nelle elezioni del 2000, se Gore fosse già stato Presidente.Certo, l’America è l’America…
Fabrizio Tonello

mercoledì 18 giugno 2008

McCain e il prezzo della benzina



Attivisti democratici hanno prodotto questo video sull'inflazione nei prezzi della benzina e sulle posizioni di McCain a sostegno dell'industria petrolifera.

venerdì 13 giugno 2008

Accetto scommesse 3 a 1 sulla vittoria di Obama

Prima di iniziare giocare con il Risiko degli stati americani rossi e blu (repubblicani i primi, democratici i secondi) per prevedere il risultato delle prossime elezioni del 4 novembre sarebbe opportuno farsi una semplice domanda: Quanti sono i repubblicani? Quanti sono i democratici? Al contrario dei paesi europei, dove l’iscrizione alle liste elettorali è automatica, negli Stati Uniti il cittadino che vuole votare deve andare a iscriversi e gli viene chiesto di dichiararsi come elettore “democratico”, “repubblicano” o “indipendente”. Questo, ovviamente, non gli impedisce affatto di votare per chi gli pare (almeno fino a che le macchinette per il voto, spesso inaffidabili, lo consentono). I sondaggisti usano le stesse categorie e, grazie a questo, sappiamo che il bacino potenziale di elettori di Obama è quest’anno molto più largo di quello dei sostenitori di McCain: si dichiarano democratici il 41,7% degli intervistati, contro il 31,6% che si dichiarano repubblicani. Gli indipendenti sono il 26,6%. Solo due anni fa, nel maggio 2006, i due grandi partiti erano quasi in parità, benché con un leggero vantaggio per i democratici: 36,4% contro 33,6% (e un 30% di indipendenti). Questo significa che i democratici sono aumentati di cinque punti percentuali, pescando tanto nel vasto bacino di indipendenti quanto fra gli stessi repubblicani. Le dimensioni dello spostamento sono poi sottostimate a causa dell’evidente mancanza di entusiasmo fra molti elettori di Bush, che sono rassegnati a votare McCain ma non lo considerano un “vero” rappresentante del partito; al contrario, i democratici sono palesemente infiammati dal carisma di Obama e pronti ad attivarsi per sostenerlo.Tutto il chiacchericcio sulle “divisioni profonde” nel partito a causa della lunga competizione nelle primarie, e sul fatto che molti elettori di Hillary preferirebbero McCain a Obama, è durato neppure lo spazio di una settimana: sabato scorso Hillary Clinton ha lealmente riconosciuto la vittoria del giovane senatore dell’Illinois e, nel giro di 5 giorni, la grande maggioranza delle donne che la sostenevano si sono compattate dietro la candidatura di quest’ultimo. Molte altre lo faranno da qui al giorno delle votazioni, in novembre. Oggi, secondo Gallup, Obama ha gudagnato 8 punti nel consenso tra le donne e avrebbe il sostegno del 51% dell’elettorato femminile nel suo complesso (una percentuale destinata probabilmente ad aumentare nelle prossime settimane).Infine, il consenso quasi unanime degli americani oggi è che la situazione dell’economia stia peggiorando: questa è l’opinione dell’86% degli intervistati, e il 55% ritiene che la sua situazione finanziaria personale sia peggiorata negli ultimi 12 mesi, di nuovo secondo Gallup. Anche questo fattore favorisce Obama, visto che McCain ha dichiarato esplicitamente che l’economia “non è il suo forte”.Tutto può succedere, compreso un grave attentato, una guerra con l’Iran, frodi elettorali: ma per il momento accetto scommesse 3 a 1 sulla vittoria di Obama (riservate agli iscritti di questa newsletter e non superiori a 30 euro, ovviamente).
Fabrizio Tonello

La prima campagna elettorale del ventunesimo secolo

Washington D.C. – In preparazione alla campagna per le elezioni di novembre, alcuni tra i protagonisti della corsa alla Casa Bianca 2008 si sono riuniti mercoledì nella sede di Google a Washington per discutere dell’impatto delle nuove tecnologie sul questo ciclo elettorale. “Le campagne elettorali non sono tutte uguali. Ogni tanto ne passa una che porta cambiamenti sociali monumentali”, ha sottolineato in apertura James Barnes, corrispondente politico del National Journal, una tra le più importanti riviste di politica americana. Paragonando il 2008 con il 1960, Barnes ha ricordato al pubblico il primo dibattito presidenziale trasmesso in televisione, quello tra Richard Nixon e John Kennedy. Così come il piccolo schermo rivoluzionò allora il modo di fare politica, Internet sta provocando oggi un altro cambiamento epocale.“La cosa fondamentale successa quest’anno”, ha spiegato Mindy Finn, direttrice della strategia Internet per Mitt Romney ‘08, “è che i nuovi media non sono più nuovi, ma sono diventati mainstream”. Utilizzato per la prima volta come strumento di mobilitazione politica nella campagna per la nomination democratica del 2004 di Howard Dean, Internet è diventato oggi il punto forte della strategia di tutti i candidati. Da mezzo alternativo ed elitario, la rete si è inoltre trasformata nel palcoscenico preferito per il dibattito pubblico a proposito delle elezioni, spesso sostituendo i mezzi tradizionali – televisione, carta stampata, radio – come fonte primaria di informazione politica. Mark Halperin, corrispondente politico di Time, ha riconosciuto che l’espansione del web “facilita la comunicazione e il dibattito tra la gente comune e permette ai cittadini di partecipare attivamente alla politica nazionale”. Il giornalismo online porta inoltre alla luce storie e notizie che in altri tempi sarebbero probabilmente state ignorate. Halperin, però, non nasconde una certa preoccupazione per l’industria della carta stampata; “le nuove forme di giornalismo web stanno risucchiando risorse economiche che in precedenza erano destinate ai media tradizionali.” E così, ad esempio, le grandi testate quotidiane sono a corto dei fondi necessari a finanziare quel giornalismo di approfondimento e d’inchiesta di cui ha bisogno una vera democrazia. Naturalmente, l’opinione dei giornalisti che devono la propria carriera proprio al successo di Internet e alla popolarità dei blog è completamente diversa. Mary Ham, responsabile dell’edizione online del quotidiano gratuito DC Examiner, e astro nascente del giornalismo di marca conservatrice, si è detta entusiasta delle potenzialità offerte da Internet e ha confessato che la sua unica preoccupazione è quella di non affogare nel infinita quantità di risorse oggi disponibili. “I nuovi media hanno rivoluzionato il modo stesso di fare campagna elettorale, non solo la copertura giornalistica delle elezioni,” ha detto Phil Singer, fino a qualche giorno fà vice-Direttore della Comunicazione per la campagna di Hillary Clinton. Grazie ad Internet, i candidati hanno uno strumento in più per far arrivare il proprio messaggio direttamente agli elettori senza dover passare per i media. Il risultato di questa ricchezza d’informazione è, come ha sottolineato l’ex-Responsabile nazionale per le Relazioni con i Media di Mitt Romney, Kevin Madden, “una certa povertà di attenzione da parte del pubblico”. Candidati, strateghi e giornalisti competono ferocemente gli uni contro gli altri per gli occhi e le orecchie dei cittadini americani.Per vincere questa lotta, i candidati alla Casa Bianca, così come i mezzi di comunicazione tradizionale, hanno dovuto ridefinire il ruolo assegnato al proprio spazio sul web. Mandy Finn ha raccontato come è cambiata la propria esperienza personale di direttrice di strategie internet dai tempi della campagna Bush/Cheney del 2004; “C’è un’enorme differenza nel modo in cui noi responsabili Internet veniamo trattati all’interno delle campagne elettorali. Non siamo più ammassati in cantina e confusi con i tecnici”. Al contrario, ogni aspetto di una campagna elettorale - la mobilitazione degli attivisti sul territorio, la raccolta fondi e i rapporti con i media – passa oggi per il sito web ufficiale del candidato, ormai il fulcro di tutte le operazioni. Joe Rospars, Direttore per i Nuovi Media per Barack Obama, ha spiegato la propria strategia, fin qui senza dubbio quella di maggior successo; “Internet per noi ha a che vedere con le relazioni interpersonali. La più grande soddisfazione è l’aver creato una comunità online di oltre un milione di utenti che hanno un account sul sito web www.barackobama.com”. Questa comunità è stata il motore dell’ascesa di Obama, grazie alla mobilitazione sul territorio e alle donazioni che ne sono seguite, e al messaggio di entusiasmo e desiderio di partecipazione che viene così lanciato al resto della nazione.Il vice-Direttore della strategia Internet per John McCain Mark Soohoo ha voluto sottolineare l’effetto di lungo periodo dell’avvento di Internet sulla scena politica americana; “Alla fine dei conti, facilitare la partecipazione dei cittadini è importante per la democrazia in generale, non solo per i nostri rispettivi candidati.” E così la pensa anche Peter Dauo, che è stato il Direttore Internet della campagna di Hillary Clinton. Dauo però offre una visione un po’ meno bipartisan; “Sicuramente si tratta di uno sviluppo positivo per la democrazia, in particolare se vince un democratico”. In conclusione, è bene ricordare che l’obbiettivo di tutti - candidati, strateghi e giornalisti - è quello di vincere la propria gara. I nuovi media sono, per l’appunto, dei mezzi di comunicazione, come la televisione, la radio e i giornali, e non offrono soluzioni magiche. È responsabilità di chi li utilizza decidere che significato attribuirvi.
Valentina Pasquali

mercoledì 11 giugno 2008

A pranzo con Obama




Cinque persone hanno avuto l'opportunità di pranzare con Obama grazie ad un'estrazione effettuata tra tutti coloro che gli hanno donato somme via internet. Il pranzo si è tenuto a Muncie (Indiana).

martedì 10 giugno 2008

L'oratoria di John McCain





Un collage di video che dimostra come persino la TV conservatrice FoxNews si interroghi sulle reali capacità del candidato repubblicano di parlare in pubblico.

domenica 8 giugno 2008

Hillary Clinton: "Yes, we can"




Organizzando una grande festa al National Building Museum di Washington, Hillary chiude la propria avventura. Ringrazia i suoi sostenitori, promette massimo appoggio a Obama e chiude il proprio intervento gridando anch'essa "Yes, we can".

venerdì 6 giugno 2008

Il primo "vero" spot di McCain



La campana elettorale vera e propria inizia.

Obama: aspirina o antibiotico?

Mentre i giornali si concentrano sulle biografie dei candidati, e sulla “novità storica” della candidatura di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti, chi si interessa davvero alla politica americana dovrebbe piuttosto chiedersi: “E’ finito il ciclo conservatore iniziato nel 1968?” La risposta a questa domanda è essenziale tanto per capire se Obama ha delle chances di essere eletto quanto per prevedere se, in caso di vittoria, la sua sarà una presidenza debole e incerta o, al contrario, l’avvio di un nuovo ciclo dominato dai democratici. 
In breve: il ciclo conservatore del 1968 nasceva da un fallimento democratico, la guerra in Vietnam, ed ebbe l’effetto di oscurare anche le fondamentali conquiste per i lavoratori e per la classe media portate dal New Deal di Franklin Roosevelt. Conquiste così straordinarie (il sistema pensionistico, l’ingresso nella classe media di milioni di giovani soldati grazie al GI Bill, la fine della segregazione razziale) da creare una maggioranza stabile alla Camera dei rappresentanti per oltre 60 anni, fino al 1994. I democratici erano sulla difensiva da molto prima, dal 1968 quando vinse Nixon, ma le idee conservatrici non si affermarono veramente che a partire dal 1980, con Ronald Reagan. In realtà, molti si attendevano un “riallineamento” stabile dell’elettorato già 40 anni fa ma questo spostamento non avvenne, da un lato perché il pensiero nazionalista non era ancora articolato e dettagliato a sufficienza per produrre maggioranze solide, e dall’altro perché l’incidente Watergate, spazzando via i repubblicani nelle elezioni del 1974 e del 1976, ebbe l’effetto di rinviare la formazione di una coalizione conservatrice. Come lo stesso Obama ha sottolineato, Reagan era un uomo di idee e questo in politica pesa (che lui le “recitasse” piuttosto che crearle personalmente, non ha alcuna importanza). Dal 1981 in poi i democratici sono sempre stati in ritardo e sulla difensiva, ridotti a proporre versioni edulcorate delle politiche reganiane: “Meno tasse sì, ma…”. Più spese per la difesa “sì, ma….”. Il prevedibile effetto di questa debolezza teorica è stata una prolungata fase di afasia del partito, durata fino al 1992.L’elezione di Bill Clinton, come quella di Tony Blair in Gran Bretagna, ebbe l’effetto di mascherare con abili tatticismi una malattia che rimaneva. Il clintonismo è stato un efficace antinfiammatorio ma, alla lunga, non si può curare la polmonite con l’aspirina. La debolezza della candidatura di Hillary quest’anno è stata il fatto che proponeva, a 16 anni di distanza, di tornare a prendere delle dosi di aspirina, magari effervescente e arricchita di vitamina C, quando gran parte degli americani vuole gli antibiotici.
Gli Stati Uniti escono da 8 anni di presidenza Bush con due guerre in corso, un debito pubblico fuori controllo, un isolamento diplomatico mai così evidente e una crisi finanziaria che sta mettendo sulla strada milioni di famiglie. Due terzi degli elettori vogliono chiudere la partita Iraq e cambiare radicalmente rotta. Il problema è che da chi avrà la responsabilità del Paese fra pochi mesi non si sono sentite grandi proposte. I due candidati democratici sono stati particolarmente timidi nell’articolare programmi ed è curioso che Barack Obama abbia parlato molto di “cambiamento” ma poco di impegni concreti. Se sarà eletto avrà larghissime maggioranze sia alla Camera che al Senato, però la tradizionale indisciplina del partito democratico tornerà a farsi sentire dopo poche settimane, a meno che il nuovo inquilino della Casa Bianca non si mostri timoniere deciso e con una bussola efficiente.
Obama avrà vari handicap nella corsa alla presidenza, in particolare un razzismo occulto che sicuramente si farà sentire nelle urne, ma anche lo straordinario vantaggio di un anno elettorale in cui i repubblicani sono allo sbando e, per quanto abbiano in John McCain un candidato rispettabile, sono scesi attorno al 30% nell’autoidentificazione dei cittadini che votano. Poiché la strada dal 30% al 51% è lunga assai, Obama parte favorito, qualunque cosa dicano i sondaggi odierni.Il problema, più che vincere, sarà governare in modo da realizzare una svolta, proporre idee coerenti, mettere insieme una coalizione politicamente solida, formare un blocco sociale durevole. Dai think tank progressisti è uscita qualche idea nuova ma nulla di sufficientemente radicale per sfidare il senso comune conservatore che ancora non si è dissolto. Si può solo sperare che il ragazzo nato alle Hawaii da madre americana e padre keniota abbia nel sangue la lungimiranza di Franklin Roosevelt e la glaciale determinazione di Abramo Lincoln piuttosto che le abilità manovriere di Jimmy Carter e di Bill Clinton.
Fabrizio Tonello

La nomination di Obama, una svolta monumentale nella storia Usa

Michael B. Katz è Professore di Storia all’Università di Pennsylvania ed è considerato uno dei più importanti esperti del welfare, della povertà e dell’ineguaglianza in America. Il Professor Katz ha parlato con Valentina Pasquali di razzismo e di come potrebbe influenzare la campagna elettorale del candidato democratico Barack Obama.
Centro di Formazione Politica (CFP): Si è fatto un gran parlare, ultimamente, del problema di Barack Obama con gli elettori bianchi e a basso reddito. Lei pensa che questo sia vero a livello nazionale, o invece si tratta solamente di difficoltà che Obama incontra nel Sud?
Michael Katz (MK): La mia impressione è che sia un problema generale, ma ho il sospetto che il problema si acuisca in alcune aeree, come ad esempio nelle campagne e nel Sud del paese. In sostanza, quei luoghi che hanno una storia di schiavitù alle spalle, dove il razzismo permane, in particolare tra coloro che hanno livelli più bassi di educazione.
CFP: A suo parere, che effetto avranno questi problemi sulle elezioni generali di novembre e sulla lotta contro John McCain? Pensa sia qualcosa di cui il Partito Democratico dovrebbe preoccuparsi seriamente?
MK: Penso che, considerato che Obama ha ottenuto il maggior numero di delegati, la dirigenza del partito si schiererà compatta con lui e si metteranno tutti a sua disposizione per cercare di costruire una base elettorale più solida laddove Obama si è mostrato più debole. Per quanto riguarda i lavoratori bianchi a basso reddito che paiono ostili ad Obama, l’influenza di costoro nelle elezioni generali dipenderà dallo stato in cui vivono, dalla percentuale della popolazione che rappresentano e, naturalmente, dipenderà dal fatto che vadano o meno a votare. Alla fine, queste persone dovranno chiedersi se vogliono davvero votare per un repubblicano, considerata la situazione del paese oggi, fra la guerra in Iraq, l’economia, il prezzo del petrolio, la crisi del mercato immobiliare. Io penso che gli verrà davvero difficile fare una scelta di questo genere. Sono convinto che queste saranno elezioni davvero complicate; da un lato ci sono i lavoratori bianchi e tradizionalmente democratici che potrebbero votare repubblicano. Dall’altro bisogna considerare che ci sono anche i repubblicani insoddisfatti che potrebbero scegliere il candidato democratico. È possibile che ci sarà una diminuzione nella partecipazione al voto dei lavoratori bianchi, allo stesso tempo però ci sarà un incremento clamoroso del voto dei giovani e degli afro-americani. Obama ha mostrato un talento incredibile nel mobilitare la gente.
CFP: Quanto nero è Barack Obama?
MK: Non si tratta di quanto Obama sia nero, piuttosto di quanto Obama sia street (ovvero afro-americano di strada). Indubbiamente Obama non è street. Obama è un americano eloquente, bello, dai titoli di studio prestigiosi. Secondo me, la maggior parte degli Americani che non si fiderebbero di Jesse Jackson, non dovrebbero invece avere problemi con Obama.
CFP: Considerata proprio la sua storia personale e il suo profile inusuale, pensa che sia giusto considerare Barack Obama come il simbolo di un vero cambiamento in America, della fine dell’epoca di segregazione e discriminazione? O invece dovremmo vederlo piuttosto come un’eccezione?
MK: Penso sinceramente che la sua candidatura segni uno sviluppo monumentale nella storia di questo paese, perchè, anche se è vero che Obama ha una madre bianca, è comunque visto dal pubblico come un afro-americano. Il fatto che un uomo di colore abbia possibilità reali di diventare il prossimo presidente è assolutamente clamoroso, qualcosa che dieci anni fa non mi sarei mai sognato di vedere nel corso della mia vita. Chiaramente però poteva solo succedere con un nero americano che possiede le caratteristiche di Obama, dunque dall’oratoria raffinata e dagli alti livelli di educazione. Non avrebbe mai potuto essere qualcuno come Al Sharpton.
CFP: Cosa pensa la comunità afro-americana di Barack Obama? Ci sono dubbi a proposito della sua vera identità causati proprio dal profilo razziale misto, dal suo passato internazionale e dai suoi titoli di studio ricevuto dalle università più prestigiose?
MK: C’è stata un po’ di discussione a proposito di questo all’inizio, sul fatto che Obama non fosse abbastanza nero. Però poi la gente si è abituata. La popolazione afro-americana in generale, in realtà, ha origini complesse e per la maggior parte miste e la visione omogenea che se ne dà è semplicistica e razzista.
CFP: Per concludere, quali saranno gli ostacoli più difficili da superare per Barack Obama nella corsa verso la Casa Bianca?
MK: Devo dire di condividere alcune delle preoccupazioni mostrate da tante persone che Obama possa diventare il bersaglio di un attentato. In parte questo è vero per tutti i presidenti o candidati alla presidenza, ma lo è ancor di più per alcuni tra essi. Esistono in questo paese dei razzisti fondamentalisti. Basti pensare a come vengono trattati quei dottori che praticano l’aborto, come vengono attaccati dai gruppi anti-abortisti. Non penso affatto che queste paure dovrebbe convincerlo a non partecipare o convincere la gente a non sostenerlo. Spero solo che la sua sicurezza personale sia sufficientemente garantita.In secondo luogo, Obama dovrà essere capace di riunire il Partito Democratico. Deve conquistare coloro che sono stati fino ad ora sostenitori di Clinton e deve comunicargli il proprio entusiasmo, convincerli ad andare a votare. Penso che Clinton lo sosterrà a pieno.Alla fine i due elementi che decideranno l’elezione saranno da un lato la forza di attrazione esercitata da Obama, che è davvero incredibile. Dall’altro c’e la repulsione per Bush. Di conseguenza ciò che è interessante osservare sono i tentativi di McCain di distanziare le proprie posizioni dall’Amministrazione Bush. Rimane il fatto che i repubblicani al momento sono visti in chiave davvero negativa.
Valentina Pasquali

giovedì 5 giugno 2008

I repubblicani contro Obama




Il partito repubblicano ha realizzato questo video che raccoglie commenti e dichiarazioni critiche di esponenti democratici su Barack Obama sul tema della sua mancanza di esperienza. Nei prossimi mesi ne vedremo certamente molti altri.

mercoledì 4 giugno 2008

La nomination è conquistata




Dopo la matematica certezza della conquista della nomination democratica, Barack Obama parla ad un auditorium stracolmo a St. Paul, Minnesota.

martedì 3 giugno 2008

"Più giovane di John McCain"




Una divertente canzone che ironizza sull'età avanzata di John McCain.

domenica 1 giugno 2008

L'ultimo tentativo di Hillary



Ora Hillary Clinton sostiene di aver avuto più voti di Obama...