venerdì 30 maggio 2008

La sicurezza sociale in America

Washington D.C. – Gli Stati Uniti non sono certo conosciuti per la generosità dei programmi che garantiscono la cosidetta sicurezza sociale. Di questi tempi, anche quei pochi interventi che offrono una rete di protezione agli strati più vulnerabili della popolazione, sono a rischio per via dei costi in crescita e delle entrate in calo. Social Security è il nome del programma del governo federale che gestisce l’erogazione delle pensioni, dei sussidi di disoccupazione, e dei contributi pubblici che vengono versati ai cittadini anziani o indigenti per la copertura delle spese sanitarie. Nel linguaggio comune, però, e ai fini di questo articolo, Social Security è da intendersi più semplicemente come il solo sistema pensionistico. Oltre il 90% dei cittadini americani di età superiore ai 65 anni, circa 50 milioni di anziani, riceve la propria pensione da lì. L’età minima per il pensionamento è 65 anni e sei mesi (anche se si può scegliere di andare in pre-pensionamento già a 62). Questo limite verrà gradualmente innalzato fino a raggiungere i 67 anni per i nati dopo il 1970.Il programma è finanziato attraverso una tassa, stabilita dal Federal Insurance Contributions Act, che viene versata in parti uguali (6,2% ciascuno) dal datore di lavoro e dall’impiegato e che viene applicata, per quanto riguarda il 2008, ai primi 102 mila dollari di reddito. Superata questa soglia, la tassa non viene più applicata. Oltre 150 milioni di americani sono soggetti al versamento di questi contributi. La Social Security è stata un programma di grande successo e genera profitti costanti sin dal 1983. Nel 2007 il surplus è stato di 190 miliardi di dollari. Purtroppo, a causa di fattori demografici ed economici, si prevede che questa tendenza positiva comincierà ad invertirsi già nel 2017, quando le uscite del sistema pensionistico eccederanno le entrate. In parte questo è il risultato naturale del progressivo pensionamento della generazione dei cosidetti “baby-boomers”, i nati subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Inoltre, il tasso di nascite negli Stati Uniti dovrebbe rimanere stabile se non addirittura decrescere mentre l’aspettativa media di vita è destinata a salire. Il risultato è che la percentuale di lavoratori rispetto al numero dei pensionati è in calo costante, tendenza che mette a repentaglio la stabilità del sistema.Un problema ulteriore viene dal fatto che il Social Security Trust Fund, ovvero il fondo di emergenza costituito da buoni del tesoro acquistati con il surplus prodotto fino ad ora dal sistema, è anch’esso sulla via dell’estinzione, nonostante nel 2002 fosse calcolato in 2,2 trilioni di dollari. Il governo americano ha preso in prestito questa somma in cambio di buoni del Tesoro e l’ha impiegata per far fronte ad altre esigenze di bilancio. In sostanza, il valore del Social Security Trust Fund è divenuto parte del debito pubblico, che nell’aprile 2008 era calcolato in 9,4 trilioni di dollari. Al 2017, anno in cui il sistema pensionistico comincierà ad andare in deficit, si prevede che il governo avrà preso in prestito dal Trust Fund un totale di quasi 4,3 trilioni di dollari. A questi ritmi, e nonostante gli interessi, il Fund dovrebbe estinguersi definitivamente entro il 2041. Naturalmente, considerati gli ostacoli che si prospettano in futuro, si parla ormai già da molto tempo di una riforma della Social Security, riforma il cui impatto sarà maggiore su quei cittadini dal reddito medio-basso che non si possono permettere indipendentemente fondi pensioni privati. Questa categoria di lavoratori, in sostanza, dipende interamente dal sistema pensionistico pubblico. Il Presidente George W. Bush spinge per una privatizzazione parziale del sistema, che dovrebbe venire integrato da fondi pensione privati, ma collegati a quelli pubblici. Dei tre candidati alla Casa Bianca, il repubblicano John McCain è colui che mantiene la posizione più simile all’attuale amministrazione. Il Senatore dell’Arizona è favorevole alla creazione di fondi privati paralleli, e si oppone a qualsiasi aumento delle imposte. McCain vorrebbe inoltre la creazione di una commissione bipartitica al Congresso che si occupi della revisione del sistema. Hillary Clinton si è detta d’accordo con McCain sull’idea di una iniziativa bipartisan per risolvere il problema, ha escluso un aumento del carico fiscale e, nonostante sia contraria alla privatizzazione totale del sistema, pare aperta alla possibilità di facilitare la nascita di fondi privati per i cittadini meno abbienti che complementino le pensioni erogate dallo stato. Infine, Barack Obama è l’unico a sostenere l’idea di un incremento del livello di reddito soggetto alla tassazione, ad oggi 102 mila dollari. Allo stesso tempo, Obama si oppone all’innalzamento dell’età pensionabile o alla diminuzione delle somme elargite. Il Senatore dell’Illinois si è detto disposto a sostenere la crescita di fondi pensionistici privati per gli americani meno abbienti nel caso che il governo sia disposto a contribuire a questi fondi un ammontare uguale a quello depositato volontariamente dai singoli cittadini.
Valentina Pasquali

giovedì 29 maggio 2008

Barack Obama sul problema casa




Da Las Vegas, Barack Obama promette aiuti e piani specifici per tutti coloro che, a causa della crisi dei mutui, rischiano di perdere la propria casa.

mercoledì 28 maggio 2008

L'orgoglio dei Clinton




In un dibattito pubblico in South Dakota, Bill Clinton ricorda ai presenti come a nessun candidato sia mai stato chiesto di ritirarsi. C'e' amarezza nelle sue parole ma anche l'orgoglio garantito dai 18 milioni di voti presi fin qui dalla moglie Hillary.

McCain cerca il voto ispanico




In occasione del Memorial Day (festa nazionale statunitense), John McCain ha preparato uno specifico messaggio televisivo per l'elettorato ispanico, che potrebbe rivelarsi uno dei punti deboli di Barack Obama. Lo scorso anno, infatti, il candidato repubblicano è stato uno dei più attivi promotori del bipartisan "immigration bill" che ha permesso la regolarizzazione di numerosi lavoratori stranieri. Questo lo ha reso molto popolare tra l'attiva comunità ispanica, che rappresenta circa il 12% dell'elettorato totale.

lunedì 26 maggio 2008

Qualche giovane per Hillary




Nel tentativo di recuperare qualche consenso tra i giovani, il sito ufficiale di Hillary Clinton ha realizzato un video con le facce e le voci dei giovani componenti dello staff della ex first lady.

domenica 25 maggio 2008

Spot di McCain sull'ambiente




Uno spot su tematiche assai lontane dalla tradizionale sensibilità repubblicana: l'ambiente e i cambiamenti climatici. Non manca, tuttavia, un accenno al caro benzina.

venerdì 23 maggio 2008

Le ragioni di Hillary Clinton

Washington D.C. – Con sole tre primarie ancora in calendario, Puerto Rico, Montana e South Dakota, Barack Obama ha già accumulato oltre la metà dei delegati che andranno alla convention di Denver in agosto. Per raggiungere quota 2025, il numero necessario ad ottenere la nomination, il Senatore dell’Illinois ha bisogno di soli 63 nuovi sostenitori. Ciò significa che, indipendentemente dai risultati delle prossime competizioni, Hillary Clinton deve convincere i superdelegati a ribaltare il verdetto popolare se vuole diventare il candidato del partito democratico alla Casa Bianca.Nella squadra di Obama si respira un’aria di giustificato ottimismo e il Senatore dell’Illinois mostra di pensare già alla campagna per le elezioni generali. Innanzitutto, Obama sta conducendo una serie di visite in stati, come ad esempio l’Iowa, che hanno votato nelle primarie, ma che sono considerati fondamentali per una vittoria a novembre. Inoltre, pare che la sua campagna elettorale abbia cominciato ad assumere nuovo personale in vista della lotta per la Casa Bianca. Infine, il Wall Street Journal ha riportato giovedì che fonti interne al Partito Democratico indicherebbero che Obama ha iniziato a riflettere sulla scelta del Vice-presidente.Nonostante le pressioni crescenti a che abbandoni la gara, Hillary Clinton pare determinata a proseguire la propria campagna elettorale perlomeno fino al 3 giugno, data delle ultime primarie. Obbligata a corteggiare il voto dei superdelegati, la ex-first lady ha bisogno di trovare sempre nuove spiegazioni del perchè la si debba ancora considerare un candidato plausibile. Ad esempio, la sua squadra elettorale sottolinea senza sosta l’importanza del voto popolare rispetto al numero di delegati, sostenendo che la Senatrice di New York ha ottenuto la percentuale più alta di preferenze, in un conteggio che arbitrariamente comprende i risultati di Michigan e Florida. Più di recente, Clinton ha provato a spostare l’attenzione sui voti elettorali, che non hanno rilevanza nelle primarie, ma determineranno l’esito delle presidenziali. L’ex-first lady insiste di aver vinto negli stati che mettono in palio il numero maggiore di voti elettorali, considerazione che teoricamente la rende il candidato democratico con le maggiori possibilità di vittoria contro John McCain. In sostanza, e come ha ironicamente enfatizzato qualche settimana fà Keith Olbermann, commentatore politico di MSNBC, Clinton continua a cambiare la propria interpretazione dei dati di voto dopo ogni turno elettorale, e a seconda dei risultati da lei ottenuti quel giorno.Nel perseguire questa strategia, Hillary Clinton sta assumendosi il rischio di inimicarsi il partito, di mettere a repentaglio future possibilità di ricandidarsi alla presidenza ed in generale di rovinare la propria carriera politica, che, a sessant’anni d’età, potrebbe essere ancora molto lunga. Le ragioni che la stanno spingendo a questa scelta sono indubbiamente numerose.In parte si tratta di considerazioni pragmatiche, che hanno a che vedere con lotte interne al partito e con la volontà di vedere riconsciuta la propria influenza politica anche in caso di sconfitta. In questo senso è interessante l’analisi offerta da Dan Conley su Salon, a proposito di cosa Hillary Clinton potrebbe volere in cambio del proprio ritiro. Innanziutto, Hillary potrebbe chiedere ad Obama di ripagarle parte dei debiti contratti per mandare avanti la propria campagna elettorale. In secondo luogo, la Senatrice di New York potrebbe domandare che Obama sottoscriva, da candidato del partito, alcune delle proposte politiche di Clinton, come ad esempio il programma per la sanità. È probabile, infine, che Hillary Clinton pretenda di essere la prima a cui viene offerto il posto di candidato alla vice-presidenza.Esistono però anche altre ragioni, e non meno importanti, dietro la decisione di Hillary Clinton di rimanere in gara. Ragioni che vanno trovate innanzitutto nella motivazione di milioni di elettori democratici che continuano a votare per lei nonostante sia chiaro a tutti che le possibilità della Senatrice di New York di aggiudicarsi la nomination sono pressochè inesistenti. Che si tratti di razzismo di fondo, diffuso in maniera endemica anche tra gli elettori del partito dell’asinello, e in particolare tra i lavoratori bianchi a basso redditto e con bassi livelli di educazione, o invece dei dubbi che molti americani nutrono su Barack Obama per via della sua inesperienza, è fondamentale che il Senatore dell’Illinois vi dedichi una riflessione seria, perchè potrebbero essere proprio queste problematiche a costargli la Casa Bianca in un anno in cui tutto sembra indicare che gli Stati Uniti sono pronti per un nuovo presidente democratico.
Valentina Pasquali

Sondaggi su Obama




Secondo questa rilevazione Gallup, per Obama ci sarebbero ancora difficoltà nel conquistare l'elettorato bianco.

martedì 20 maggio 2008

McCain presenta in anticipo il bilancio della sua presidenza



Uno spot senza fantasia dei repubblicani, che presentano il loro programma come "cosa fatta" dopo 4 anni di McCain alla Casa Bianca (la data che compare all'inizio è il 2013 perché il presidente per cui si vota in novembre entrerà in carica il 20 gennaio 2009).
I collaboratori di McCain sono tenuti sotto pressione dai videoattivisti democratici che, ad ogni nuovo commercial repubblicano, mettono immediatamente su YouTube una parodia (vedi qui).

McCain sulle divisioni fra i democratici



Un video stranamente tardivo, dove McCain cerca di sfruttare il tema della divisione fra i democratici.

MoveOn azzanna McCain



MoveOn, una delle più potenti e progressiste organizzazioni vicine al partito democratico attacca un collaboratore di McCain per le sue attività di lobbista a favore di dittatori del Terzo Mondo. E' l'inizio di una campagna elettorale in cui i democratici vogliono dimostrare che il gioco duro non li spaventa.

75.000 persone per ascoltare Obama a Portland



Oggi si vota in Kentucky e Oregon. Questo è il video del meeting di ieri nella capitale, forse il più affollato tenuto da Barack Obama in tutta la stagione delle primarie.

lunedì 19 maggio 2008

Obama sfida McCain





Obama ormai non considera più Hillary Clinton. In questo video sfida a dibattito John McCain, invitandolo a confrontarsi su argomenti di politica estera. E sulla questione mediorientale il senatore democratico ribadisce l'efficace equazione: McCain=Bush.

domenica 18 maggio 2008

Hillary non si arrende

Intervistata dalla CBS, Hillary Clinton si dichiara fiduciosa e ancora certa di poter conquistare la nomination

venerdì 16 maggio 2008

La malattia mortale di George Bush

Niente di peggio dei mesi o delle settimane in cui il re, malato, finge ancora di essere in carica mentre i sudditi contano i giorni, i baroni tramano la successione e perfino i fedelissimi abbandonano la sala del Trono. George W. Bush apparentemente gode di un’ottima salute fisica ma è stato colpito da una malattia mortale: la Costituzione americana gli vieta di ricandidarsi e questo automaticamente lo fa decadere dal ruolo di leader del partito. Nel palazzo del potere abita ancora lui, ma il nuovo leader è il successore designato, John McCain.
McCain è tutt’altro che un giovane e ambizioso cavaliere, essendo più anziano e anche più saggio di Bush, ma sta cercando di farsi eleggere rinnegando gran parte dell’eredità del suo predecessore. Da soldato leale è ancora d’accordo con la guerra in Iraq, ma per il resto si preoccupa di fare sapere che la sua amministrazione sarà, se eletto, del tutto diversa da quella di Bush, in particolare sull’ambiente. McCain è un candidato rispettabile, oltre che abile, ma deve difendere i colori della casata in un torneo in cui gli avversari sono formidabili e in un anno in cui le truppe sono di dubbia lealtà.
Questo è apparso particolarmente evidente giovedì 15 maggio, quando anche il Senato, dopo la Camera, ha votato a schiacciante maggioranza una legge che stanzia un bel pacchetto di miliardi di dollari per i Food Stamps, quei buoni alimentari da cui varie decine di americani dipendono per non morire –letteralmente- di fame. In un Senato diviso esattamente a metà (49 democratici e 49 repubblicani, più 2 indipendenti) è assolutamente stupefacente che si crei una maggioranza di 81 senatori favorevole a un progetto di legge a cui Bush ha promesso di mettere il veto. Questo significa che 30 senatori repubblicani su 49 hanno deciso di ignorare i desideri di Bush e la tradizionale linea del partito per cercare di salvare il salvabile in novembre.
Certo, nel calcolo politico ci sono anche motivi per nulla nobili, come il fatto che la legge promette ben 40 miliardi di dollari in sussidi agli agricoltori. in particolare ai grandi gruppi agroindustriali che quest’anno semplicemente nuotano nei profitti, a causa dell’esplosione del prezzo dei cereali sul mercato mondiale. Ma, politicamente, è la prima volta che i democratici riescono ad ottenere l’alleanza di una frazione significativa dei repubblicani e, potenzialmente, a rovesciare un veto di Bush che per oltre 7 anni ha sempre governato con pugno di ferro il gruppo parlamentare (le fantasie sullo spirito bipartisan e la vocazione a “coalizioni centriste” nel Congresso americano vanno lasciate ai giornalisti che non hanno mai letto un manuale di storia politica di quel paese).
Dunque, Bush non controlla più il partito e le elezioni suppletive vanno a rotoli una dopo l’altra: nel giro di pochi giorni i repubblicani hanno perso tre seggi “sicuri”. Nei sobborghi di Chicago, il loro candidato è stato sconfitto dal democratico Bill Foster in un collegio dove Bush aveva avuto 5 punti percentuali più di John Kerry nel 2004. In Louisiana, quella che doveva essere una facile vittoria repubblicana (il margine nel 2004 era 7 punti a loro favore) si è trasformata in una disfatta. E, infine, il partito dell’elefante ha perso in una circoscrizione del Michigan dove George Bush ottenne il 62% dei voti alle ultime elezioni.Nella politica americana, chiunque faccia previsioni è un pazzo o un ciarlatano. Quest’anno, fidatevi della mia sfera di cristallo: in Congresso si creeranno maggioranze democratiche simili a quelle ottenute da Franklin Roosevelt.
Fabrizio Tonello

E se Washington e Teheran collaborassero?

Washington D.C. – A cinque anni dall’invasione americana dell’Iraq, dopo oltre 4.000 morti statunitensi e un numero imprecisato di vittime irachene, non esiste ancora alcun consenso a Washington sulla strategia da perseguire in futuro. Dei tre candidati ancora in corsa per la Casa Bianca (John McCain, Barack Obama e Hillary Clinton), i due democratici promettono il ritiro delle truppe, John McCain, invece, è sostenitore convinto dell’aumento del numero di soldati americani in Iraq messo in atto da George W. Bush all’inizio del 2007 e di cui il senatore dell’Arizona fu in parte ideatore.
Nonostante le differenze, esiste un filo conduttore che unisce questi due opposti approcci; ovvero gli americani, repubblicani o democratici che siano, paiono non comprendere che la guerra in Iraq non è semplicemente una questione di politica interna, ma che ci sono invece molti altri attori che sono coinvolti nel conflitto e che l’Iran è il principale tra questi.
Di rientro da due recenti viaggi in Iran, Selig Harrison, direttore del Center for International Policy, un’organizzazione non governativa con sede a Washington D.C., ha cercato di fare chiarezza su questo tema mercoledì mattina, in una conferenza organizzata dal Woodrow Wilson Center, un centro di ricerca della capitale: “La mia opinione è che non ci possa essere un ritiro ordinato e sicuro delle nostre truppe dall’Iraq, e una reale ricostruzione post-bellica del paese, senza l’aiuto dell’Iran”, ha detto Harrison. Secondo il Direttore del CIP, l’Iran non è da considerarsi semplicemente come una minaccia alla stabilità del Medio Oriente e potrebbe rivelarsi invece un aiuto per la soluzione della guerra in Iraq, se Washington si rendesse disponibile a trattare seriamente con Teheran.
Questioni geografiche e storiche rendono di facile comprensione gli interessi iraniani in Iraq. I due paesi condividono un confine di 900 miglia, sono entramba in maggioranza sciiti, e intrattengono relazioni bilaterali da millenni. “Per cinque secoli l’Iran sciita ha atteso la fine del governo della minoranza sunnita a Baghdad così che Teheran potesse finalmente riconquistare la propria influenza sulla regione,” ha spiegato Harrison al Wilson Center. Quando nel 2003 gli Stati Uniti decisero di abbattere il regime sunnita di Saddam Hussein, la vicina Repubblica Islamica fu attraversata da sentimenti contrastanti. Da un lato Teheran era inquieta all’idea dell’arrivo dell’esercito americano ai suoi confini. Dall’altro, il governo iraniano riconobbe immediatamente un’occasione per riconquistare potere, possibilità a cui l’amministrazione Bush non pare aver riflettuto al momento di decidere l’invasione del 2003.
Oggi, rimangono pochi dubbi sul fatto che l’Iran abbia rafforzato la propria influenza sui vicini iracheni e che molti dei progressi fatti – ultimo fra i quali la tregua concordata tra il governo di Nouri al-Maliki e le milizie di Muqtada al Sadr – siano arrivati grazie ad un intervento iraniano. Gli Stati Uniti dipendono quindi dall’Iran per una risoluzione positiva del conflitto iracheno.
Fortunatamente, Washington e Teheran hanno un comune interesse a mantenere l’ordine in Iraq e a che il paese rimanga unito. Teheran è particolarmente preoccupata dell’indipendentismo curdo, che potrebbe essere d’ispirazione alla minoranza curda iraniana. Inoltre, secondo Harrison, l’Iran ha mostrato vari segnali di apertura verso una collaborazione con gli americani. “L’Iran sta tenendo a freno al Sadr ed è pronta a contribuire alla stabilizzazione del paese, a patto però che Washington delinei con una certa precisione un piano di ritiro delle proprie truppe. E naturalmente alla condizione che gli Stati Uniti accettino l’idea che l’Iran giochi un ruolo importante nella Baghdad post-bellica”.
L’Iraq potrebbe diventare dunque il terreno di una nuova collaborazione tra l’Iran e gli Stati Uniti. Allo stesso tempo, se gli americani non cambiano rotta, potrebbe rappresentare il teatro di uno scontro diretto tra i due paesi. Le scelte che saranno fatte nel prossimo futuro avranno un impatto su tutta la regione. Ad esempio, continua Harrison, “la frustrazione di Teheran per il comportamento americano a Sadr City (il quartiere abitato da due milioni di persone che è stato in rivolta nelle ultime settimane e su cui l’esercito americano non ha esitato ad usare le bombe), ha probabilmente contribuito ai più recenti sviluppi in Libano”, ha commentato il direttore del Center for International Policy mercoledì mattina riferendosi al riattizzarsi degli scontri tra gli Hezbollah e il governo di Beirut.
Viceversa, un’apertura americana verso l’Iran in Iraq potrebbe rappresentare il primo passo verso l’inizio di nuove relazioni diplomatiche, anche a riguardo della questione nucleare. Fino ad ora, sostiene Harrison, “gli Stati Uniti non sembrano davvero impegnati a trovare una soluzione di compromesso sul programma nucleare iraniano, almeno fino a quando continueranno a domandare a Teheran di interrompere qualsiasi attività di arricchimento dell’uranio come pre-requisito a qualunque tipo di negoziazione”. Selig Harrison è convinto che sia possibile, in futuro, ottenere dall’Iran il congelamento di tutta l’attività nucleare, sotto il controllo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica; “gli Stati Uniti però dovranno accettare di sottoscrivere un impegno formale di non utilizzare armi nucleari nel golfo”.Selig Harrison ha messo così in evidenza la lunga lista di ragioni che dovrebbero spingere gli americani a cambiare approccio verso l’Iran. Tra i candidati alla presidenza, Barack Obama è l’unico che pare teoricamente disposto a trattare con Teheran. John McCain promette di mantenere la linea dura scelta da Bush e Cheney. Hillary Clinton ha più volte dichiarato che non prevede di incontrare personalmente Ahmadinejad e che relazioni diplomatiche a livello presidenziale saranno possibili solamente se il governo iraniano rinuncerà al nucleare.
Valentina Pasquali

giovedì 15 maggio 2008

Razzismo strisciante





Dalla West Virginia, quello che pochi vogliono ammettere, ma che forse rimane l'ultima carta di Hillary Clinton per giocarsi la nomination: Non tutti i democratici sono pronti per un presidente nero.

mercoledì 14 maggio 2008

Obama in Missouri



Mentre Hillary festeggia la vittoria in West Virginia, Obama parla ormai da candidato e da Cape Girardeau, Missouri (stato nel quale si è già votato per le primarie), affronta il problema della disoccupazione e dell'energia.

lunedì 12 maggio 2008

Edwards vicino all'endorsement






John Edwards, ospite del talk show del mattino di MSNBC elogia ripetutamente Barack Obama. Un ulteriore segnale del difficile momento della candidatura Clinton.

domenica 11 maggio 2008

Chelsea Clinton scrive alla mamma (e mette il video su Youtube)



Una commovente cartolina-video di Chelsea Clinton per sostenere Hillary presso gli elettori democratici. Peccato che la Festa della Mamma sia arrivata troppo tardi per salvare la nomination.

venerdì 9 maggio 2008

I repubblicani si preparano allo scontro con Obama

Il Republican National Committee (l'equivalente della Segreteria Nazionale del Partito Repubblicano), ha creato questo video per il web per sottolineare i dubbi tipici dell'elettorato conservatore sulla candidatura di Barack Obama.

Full d'assi

Dunque, sarà Obama. I risultati del 6 maggio non lasciano speranze a Hillary Clinton che, per testardaggine e affetto nei confronti dei sostenitori che l’hanno seguita fin qui, aspetterà probabilmente giugno e la fine ufficiale della stagione delle primarie per ritirarsi ma non ha più alcuna vera speranza di strappare la candidatura a Barack Obama. Questi ha circa 150 delegati più di lei e ne otterrà almeno quanti la Clinton, se non di più, nella ripartizione di quelli che non hanno ancora dichiarato ufficialmente il loro appoggio a uno dei due aspiranti alla leadership del partito democratico.A questo punto la domanda è: il giovane e carismatico senatore dell’Illinois può vincere? La furiosa battaglia delle primarie non ha fornito argomenti in abbondanza ai repubblicani per distruggerlo fra settembre e ottobre, come fecero assai facilmente quattro anni fa con John Kerry? La risposta è che può succedere, ma i venti spirano in tutt’altra direzione. I democratici americani possono perdere ma poiché questo è un anno in cui tutto li favorisce, se ciò accade dovrebbero dedicarsi “to another line of business”, a un altro mestiere, come dicono a New York.Le chiacchere dei giornali, i pettegolezzi delle televisioni, la propaganda assassina a base di spot abilmente manipolati possono lasciare il segno ma i cittadini americani andranno alle urne in novembre con tre cose in mente: l’economia, la guerra in Iraq e la paralisi politica. L’economia non va bene (i prezzi delle case continuano a scendere, milioni di famiglie sono già sulla strada perché non riescono a pagare il mutuo) e, soprattutto, l’inflazione morde nel portafoglio degli automobilisti, cioè di tutti. Il prezzo della benzina ha superato ogni record storico e nessuno sa come intervenire.La guerra continua, forse è scomparsa dagli schermi televisivi ma le lettere alle famiglie dei caduti, o dei mutilati, continuano ad arrivare.Infine, la paralisi della politica a Washington, frutto della polarizzazione dei due partiti e di una presidenza da troppo tempo in mani repubblicane, è diventata un costo non più sostenibile per il Paese. Gli americani sanno che il prossimo Congresso sarà a maggioranza democratica (ogni giorno un deputato repubblicano annuncia di non volersi presentare, nella certezza di essere sconfitto) e quindi gli elettori tenteranno la carta di un esecutivo riunificato al legislativo, di un presidente democratico che promette di cambiare l’inerzia e la corruzione della capitale.Come ha scritto Timothy Garton Ash qualche giorno fa, è molto probabile che alle grandi speranze attuali corrispondano domani delusioni ancora più profonde, ma questo per il momento non ci riguarda: gli esiti della campagna elettorale sono ancora estremamente incerti ma le carte distribuite fin qui favoriscono Barack Obama. Poi, al tavolo di poker, si può perdere anche con un full d’assi servito.

Fabrizio Tonello

Le carceri in America

Washington D.C. – Nell’ultimo numero della newsletter abbiamo illustrato le radici teoriche della politica di Tolleranza Zero che, dagli anni Ottanta ad oggi, ha contribuito significativamente all’aumento del numero dei cittadini americani dietro le sbarre. Abbiamo anche trattato dello stato del sistema penitenziario americano, con suoi numeri e suoi costi. Gli effetti della Tolleranza Zero sul tasso di criminalità sono molto discussi, e spesso terreno di scontro elettorale, mentre continua a mancare da parte della classe politica un’analisi seria di tale approccio.Quest’anno la spesa per il mantenimento delle carceri e l’efficacia reale ai fini della sicurezza non sono tra i temi più sentiti della campagna elettorale 2008. Ma nessun candidato o stratega politico considererebbe saggio proporre un programma che possa apparire “soft on crime”, come si direbbe negli Stati Uniti. In un sondaggio condotto da Gallup nel 2006, il 51% degli intervistati si è dichiarato convinto che il tasso di criminalità nella propria comunità fosse più alto che l’anno precedente, e il 68% ha mostrato di avere la medesima percezione per quanto riguarda il crimine a livello nazionale. In sostanza, difficilmente gli Americani potrebbero venir persuasi a votare per un politico, repubblicano o democratico, che appaia poco risoluto in maniera di criminalità.Inoltre i carcerati ed ex-carcerati, che potrebbero essere gli unici interessati a nuove politiche in materia, sono privati del diritto di voto nella maggior parte degli stati dell’Unione, non solamente durante l’incarceramento, ma spesso vita natural durante. Ad oggi si calcola che a 5,3 milioni di Americani che hanno avuto problemi con la legge sia proibito di votare. Tra costoro, 2 milioni sono quelli che hanno già finito di scontare le proprie pene e 1,8 milioni sono agli arresti domiciliari o hanno ottenuto una sospensione della condanna. In elezioni che si giocano spesso sul filo di lana, poche migliaia di voti, questa situazione può avere conseguenze politiche decisive, in particolare per il partito democratico.Va detto che ci sono alcuni segnali positivi. Recentemente Alabama, Florida, Iowa, Maryland e Mississippi hanno modificato legislazioni che toglievano per sempre il diritto di voto a chiunque fosse stato incarcerato. Esiste inoltre una proposta di legge del Deputato democratico dello Stato di New York Charles Rangel che reistituirebbe immediatamente il diritto di voto al rilascio dalla galera. Il testo di legge è in attesa di essere discusso alla Camera dal 2003. Nonostante questi sviluppi, per il momento non bisogna attendersi dal nuovo presidente, che si tratti di McCain, di Obama o di Clinton, cambiamenti significativi alla politica sul crimine.In assenza di un dibattito propriamente politico sul sistema penitenziario in America, abbondano invece gli studi specialistici a disposizione. Un articolo di Adam Liptak sul New York Times di qualche settimana fà cita due esempi interessanti e contrapposti. Da un lato, secondo le statistiche del Dipartimento della Giustizia, dal 1981 al 1996 il rischio di arresto e condanna per tutti i crimini tranne l’omicidio, è cresciuto negli Stati Uniti e calato in Inghilterra. E le statistiche sul crimine nei due paesi mostrano di essere inversamente proporzionali, in calo negli Stati Uniti e in crescita in Inghilterra. D’altra parte, se si paragonano Canada e Stati Uniti, si scopre che i tassi di criminalità si sono spostati, durante gli ultimi quarant’anni, secondo curve parallele, nonostante il numero di incarcerazioni sia rimasto stabile in Canada e sia invece cresciuto esponenzialmente in America, in particolare a partire dagli anni ottanta.Uno studio del Justice Policy Institute, un centro di ricerca con sede a Washington DC, suggerisce inoltre che altri e diversi fattori influenzano i tassi di criminalità. Ad esempio, all’aumento dei livelli di occupazione è direttamente associato un miglioramento delle condizioni di sicurezza pubblica. I ricercatori hanno scoperto che esiste una relazione tra l’aumento dell’occupazione e la diminuzione della criminalità avvenute tra il 1992 e il 1997. In tale lasso di tempo, la disoccupazione in America è scesa del 33%. L’analisi del Justice Policy Institute sottolinea che oltre il 40% della simultanea diminuzione dei tassi di criminalità è attribuibile proprio alla crescita nel numero di posti di lavoro. Anche l’aumento dei salari pare essere collegato direttamente alla sicurezza pubblica. Secondo le ricerche effettuate, un aumento salariale del 10% potrebbe essere sufficiente a ridurre dell’1,4% il numero di ore che uomini in giovane età in particolare dedicano ad attività criminose. Infine, è stato rilevato che quegli stati dell’Unione con più alti livelli di occupazione mostravano tassi di criminalità inferiori alla media nazionale.Un esempio di come alternative alla Tolleranza Zero siano non solo possibili ma anche auspicabili arriva, un po’ sorprendentemente, dal Texas, lo stato di Bush tra i più conservatori del paese. Tra il 1985 e il 2005, il numero di persone in galera è cresciuto qui del 300%. Nonostante l’Assemblea dello Stato avesse scelto inizialmente di aumentare il budget destinato alla costruzione e all’ampliamento dei penitenziari, nel 2007 un’azione bipartisan ha dato il via ad una riforma del sistema. Invece che autorizzare la spesa di ulteriori 523 milioni di dollari per aggiungere nuove celle alle carceri, il Texas ha scelto di finanziare l’espansione dei programmi di riabilitazione e ha reso più flessibili le norme sugli arresti domiciliari e sulla detenzione pre-processo. Si stima che la riforma farà risparmiare lo stato circa 210 milioni di dollari nei prossimi due anni, mentre la popolazione carceraria dovrebbe rimanere costante per i prossimi cinque anni.

Valentina Pasquali

Obama e Israele





Nel sessantesimo anniversario della fondazione di Israele, Barack Obama ribadisce l'importanza della "relazione speciale" esistente tra gli Stati Uniti e lo stato ebraico.

McCain: "L'importanza della Corte Suprema"




In North Carolina, dall'aula magna della Wake Forest University, John McCain esprime la propria visione sulla giustizia e sul ruolo della Corte Suprema.

mercoledì 7 maggio 2008

Obama dopo la vittoria in North Carolina

Il discorso di Barack Obama dopo la vittoria in Carolina del Nord.

Clinton dopo la vittoria in Indiana




Il discorso della vittoria di Hillary Clinton in Indiana.

martedì 6 maggio 2008

Obama gioca in casa... o quasi.



L'ultimo spot di barack Obama prima del voto di martedì in Indiana, anche questo su crisi economica e rincaro della benzina.

lunedì 5 maggio 2008

Hillary contro il caro benzina

A poche ore dalle primarie in Indiana (dove i sondaggi assegnano a Obama un cospicuo vantaggio), Hillary Clinton cerca di guadagnare consensi, promettendo tagli al prezzo dei carburanti.

domenica 4 maggio 2008

I REPUBBLICANI CI PROVANO, MA...



Un video per l'elezione supplettiva nella circoscrizione LA-6 in Luisiana. I Repubblicani hanno attaccato il candidato democratico associandolo a Barack Obama e Nancy Pelosi, senza successo. Risultati e commenti qui.

giovedì 1 maggio 2008

McCain come Bush

L'organizzazione MoveOn, non associata direttamente con nessuno dei candidati democratici in corsa, ma che finanzia spot televisivi volti a sottolineare l'importanza di tematiche specifiche e a sostenere le posizioni democratiche contro quelle repubblicane, ha appena rilasciato una nuova pubblicita' che attacca McCain come l'erede di Bush e della politica dissennata dell'attuale presidente in Iraq. Mercoledi' era il quinto anniversario della famosa uscita di Bush sulla porta-aerei di ritorno dall'Iraq a cui era appeso lo striscione che recitava: "Mission Accomplished".

Nuovo spot di Clinton in North Carolina


Il Governatore del North Carolina Mike Easley ha dichiarato il proprio sostegno per Hillary Clinton e la Senatrice dello Stato di New York ha immediatamente deciso di sfruttare il nuovo sostenitore in uno spot lanciato giovedi' in North Carolina in vista delle primarie del 6 maggio. Nello spot il Governatore Easley elogia Clinton per la sua determinazione e resistenza e approva il programma politico rivolto ai lavoratori americani.

Daddy Cool Obama





Sono molti i video su Barack Obama realizzati dai suoi fans. Eccone un esempio.