venerdì 16 maggio 2008

E se Washington e Teheran collaborassero?

Washington D.C. – A cinque anni dall’invasione americana dell’Iraq, dopo oltre 4.000 morti statunitensi e un numero imprecisato di vittime irachene, non esiste ancora alcun consenso a Washington sulla strategia da perseguire in futuro. Dei tre candidati ancora in corsa per la Casa Bianca (John McCain, Barack Obama e Hillary Clinton), i due democratici promettono il ritiro delle truppe, John McCain, invece, è sostenitore convinto dell’aumento del numero di soldati americani in Iraq messo in atto da George W. Bush all’inizio del 2007 e di cui il senatore dell’Arizona fu in parte ideatore.
Nonostante le differenze, esiste un filo conduttore che unisce questi due opposti approcci; ovvero gli americani, repubblicani o democratici che siano, paiono non comprendere che la guerra in Iraq non è semplicemente una questione di politica interna, ma che ci sono invece molti altri attori che sono coinvolti nel conflitto e che l’Iran è il principale tra questi.
Di rientro da due recenti viaggi in Iran, Selig Harrison, direttore del Center for International Policy, un’organizzazione non governativa con sede a Washington D.C., ha cercato di fare chiarezza su questo tema mercoledì mattina, in una conferenza organizzata dal Woodrow Wilson Center, un centro di ricerca della capitale: “La mia opinione è che non ci possa essere un ritiro ordinato e sicuro delle nostre truppe dall’Iraq, e una reale ricostruzione post-bellica del paese, senza l’aiuto dell’Iran”, ha detto Harrison. Secondo il Direttore del CIP, l’Iran non è da considerarsi semplicemente come una minaccia alla stabilità del Medio Oriente e potrebbe rivelarsi invece un aiuto per la soluzione della guerra in Iraq, se Washington si rendesse disponibile a trattare seriamente con Teheran.
Questioni geografiche e storiche rendono di facile comprensione gli interessi iraniani in Iraq. I due paesi condividono un confine di 900 miglia, sono entramba in maggioranza sciiti, e intrattengono relazioni bilaterali da millenni. “Per cinque secoli l’Iran sciita ha atteso la fine del governo della minoranza sunnita a Baghdad così che Teheran potesse finalmente riconquistare la propria influenza sulla regione,” ha spiegato Harrison al Wilson Center. Quando nel 2003 gli Stati Uniti decisero di abbattere il regime sunnita di Saddam Hussein, la vicina Repubblica Islamica fu attraversata da sentimenti contrastanti. Da un lato Teheran era inquieta all’idea dell’arrivo dell’esercito americano ai suoi confini. Dall’altro, il governo iraniano riconobbe immediatamente un’occasione per riconquistare potere, possibilità a cui l’amministrazione Bush non pare aver riflettuto al momento di decidere l’invasione del 2003.
Oggi, rimangono pochi dubbi sul fatto che l’Iran abbia rafforzato la propria influenza sui vicini iracheni e che molti dei progressi fatti – ultimo fra i quali la tregua concordata tra il governo di Nouri al-Maliki e le milizie di Muqtada al Sadr – siano arrivati grazie ad un intervento iraniano. Gli Stati Uniti dipendono quindi dall’Iran per una risoluzione positiva del conflitto iracheno.
Fortunatamente, Washington e Teheran hanno un comune interesse a mantenere l’ordine in Iraq e a che il paese rimanga unito. Teheran è particolarmente preoccupata dell’indipendentismo curdo, che potrebbe essere d’ispirazione alla minoranza curda iraniana. Inoltre, secondo Harrison, l’Iran ha mostrato vari segnali di apertura verso una collaborazione con gli americani. “L’Iran sta tenendo a freno al Sadr ed è pronta a contribuire alla stabilizzazione del paese, a patto però che Washington delinei con una certa precisione un piano di ritiro delle proprie truppe. E naturalmente alla condizione che gli Stati Uniti accettino l’idea che l’Iran giochi un ruolo importante nella Baghdad post-bellica”.
L’Iraq potrebbe diventare dunque il terreno di una nuova collaborazione tra l’Iran e gli Stati Uniti. Allo stesso tempo, se gli americani non cambiano rotta, potrebbe rappresentare il teatro di uno scontro diretto tra i due paesi. Le scelte che saranno fatte nel prossimo futuro avranno un impatto su tutta la regione. Ad esempio, continua Harrison, “la frustrazione di Teheran per il comportamento americano a Sadr City (il quartiere abitato da due milioni di persone che è stato in rivolta nelle ultime settimane e su cui l’esercito americano non ha esitato ad usare le bombe), ha probabilmente contribuito ai più recenti sviluppi in Libano”, ha commentato il direttore del Center for International Policy mercoledì mattina riferendosi al riattizzarsi degli scontri tra gli Hezbollah e il governo di Beirut.
Viceversa, un’apertura americana verso l’Iran in Iraq potrebbe rappresentare il primo passo verso l’inizio di nuove relazioni diplomatiche, anche a riguardo della questione nucleare. Fino ad ora, sostiene Harrison, “gli Stati Uniti non sembrano davvero impegnati a trovare una soluzione di compromesso sul programma nucleare iraniano, almeno fino a quando continueranno a domandare a Teheran di interrompere qualsiasi attività di arricchimento dell’uranio come pre-requisito a qualunque tipo di negoziazione”. Selig Harrison è convinto che sia possibile, in futuro, ottenere dall’Iran il congelamento di tutta l’attività nucleare, sotto il controllo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica; “gli Stati Uniti però dovranno accettare di sottoscrivere un impegno formale di non utilizzare armi nucleari nel golfo”.Selig Harrison ha messo così in evidenza la lunga lista di ragioni che dovrebbero spingere gli americani a cambiare approccio verso l’Iran. Tra i candidati alla presidenza, Barack Obama è l’unico che pare teoricamente disposto a trattare con Teheran. John McCain promette di mantenere la linea dura scelta da Bush e Cheney. Hillary Clinton ha più volte dichiarato che non prevede di incontrare personalmente Ahmadinejad e che relazioni diplomatiche a livello presidenziale saranno possibili solamente se il governo iraniano rinuncerà al nucleare.
Valentina Pasquali