(da: CFP NEWS - Anno 4 Numero 113 – 1 febbraio 2008)
Si potrebbe chiamarla “unità nazionale”, o “grande coalizione”, o “largo consenso”: è l’idea di mettere insieme, in genere per un periodo limitato e su obiettivi specifici, forze di ispirazione politica opposta, magari dopo campagne elettorali in cui i partiti si sono combattuti senza esclusione di colpi. Storicamente, il caso più frequente è quello delle guerre: democratici e repubblicani, conservatori e laburisti, democristiani e comunisti, socialdemocratici e cristiano-sociali si sono ritrovati a governare fianco a fianco, in situazioni in cui tenere elezioni regolari non era possibile, oppure era giudicato inopportuno per evitare ogni intralcio allo sforzo bellico.
Così, Winston Churchill formò un governo che aveva al proprio interno i principali leader laburisti, il generale de Gaulle un governo provvisorio con dentro i comunisti francesi e, in Italia, abbiamo avuto l’esperienza dei governi del CNL durante, e subito dopo, la Resistenza. In tempo di pace, ci sono le esperienze della prima Grosse Koalition tedesca, quella del 1966 che vide insieme i cristiano-democratici con i socialdemocratici di Willy Brandt, seguita da quella che si è formata dopo il “pareggio” alle ultime elezioni, portando nel 2005 a un governo presieduto da Angela Merkel.
La popolarità in Italia del concetto di Bipartisanship viene da una malcelata ammirazione per la tradizione americana di consenso sulle scelte principali di politica estera. Come vedremo, tuttavia, questa tradizione è una invenzione recente e ha funzionato solo per brevi periodi. Per quanto riguarda la politica interna, si sono spesso formate coalizioni centriste su provvedimenti ad hoc ma mai veri e propri governi che includessero entrambi i grandi partiti.
Se guardiamo alle origini degli Stati Uniti, la politica estera era forse il tema di maggiore scontro tra federalisti (filoinglesi) e antifederalisti (filofrancesi). L’amministrazione Adams (1797-1801) rischiò la guerra con la Francia per il suo atteggiamento di sostegno alla Gran Bretagna. A sua volta, l’amministrazione Madison (1809-1813) dichiarò guerra agli inglesi, subendo inizialmente una umiliante sconfitta con la perdita di Washington e l’incendio della Casa Bianca appena costruita. Alcuni successi militari americani, più tardi, permisero la firma di un trattato di pace ma il prezzo pagato dai federalisti (che erano stati contrari alla guerra) fu la scomparsa del partito.
Neppure si può parlare di politica estera bipartisan nella fase di espansione a fine Ottocento, quando la guerra di Cuba contro la Spagna suscitò un vasto entusiasmo nel Paese e suscitò ambizioni coloniali nel Pacifico (dopo le Hawai, gli Stati Uniti conquistarono le Filippine stroncando una forte guerriglia nazionalista). Al contrario, la politica del partito repubblicano (prima con William McKinley e poi con Theodore Roosevelt) fu sempre osteggiata dai democratici, che dopo aver vinto le elezioni nel 1912 nominarono segretario di Stato l’antimperialista William Jennings Bryan.
La partecipazione alla prima guerra mondiale, fortemente voluta dal presidente democratico Woodrow Wilson, spinse verso l’isolazionismo il partito repubblicano e solo nel 1945 si aprì una fase di collaborazione tra i due partiti, resa necessaria dalla guerra fredda con l’Unione Sovietica. Fu nel periodo 1945-1953, quando i democratici controllavano la Casa Bianca ma i repubblicani si rafforzarono in Congresso, che i due partiti trovarono un’intesa sulla costruzione delle organizzazioni multilaterali come l’Onu, il Fondo Monetario, la Banca Mondiale. Non solo: rinunciando all’isolazionismo, la maggioranza dei repubblicani accettò il riarmo, il sostegno alla Grecia e alla Turchia, il ponte aereo per rifornire i settori occidentali di Berlino, la guerra di Corea.
La sconfitta nelle elezioni del 1952, quando fu eletto alla presidenza il repubblicano Eisenhower, permise altri dieci anni di collaborazione in politica estera, con i democratici (maggioranza alla Camera e al Senato) che recitavano il ruolo dei “falchi”, sempre disposti a finanziare nuovi programmi nucleari, nuovi interventi nel mondo e nuove operazioni clandestine della CIA.
La rottura avviene sul Vietnam, che segna la fine della politica estera bipartisan per ben 40 anni. Malgrado occasionali convergenze, infatti, da allora i democratici sono sempre stati reticenti a seguire i repubblicani nel loro nuovo atteggiamento “imperiale”, che ci fosse da negoziare con l’Unione Sovietica o da reagire contro il terrorismo islamico. Le votazioni quasi unanimi dopo l’11 settembre sono state più apparenza che sostanza: forse l’amministrazione Bush sarebbe riuscita a mantenere una politica estera bipartisan se avesse rinunciato a invadere l’Iraq ma la scelta di impegnare invece il Paese in una nuova guerra di durata indefinita non poteva che far crollare immediatamento il fragile consenso costruito in Congresso sull’Afghanistan.
Il mio giudizio è quindi che i partiti si sono polarizzati e la stessa società americana si è divisa in due campi contrapposti. Può darsi che, in futuro, ci sia un’inversione di tendenza: quest’anno sia Obama che McCain cercano di darsi un’immagine “conciliante” per attirare i voti degli elettori indipendenti. Per il momento, i dati raccontano una storia di progressiva radicalizzazione dei repubblicani e dei democratici.
Nel 1970, per esempio, i deputati democratici votarono secondo le indicazioni del loro partito solo nel 58% dei casi, quelli repubblicani nel 60%. Nel 1980 le percentuali furono del 69% per i deputati democratici e del 71% per quelli repubblicani. L’elezione di Ronald Reagan portò a un rapido aumento della coesione: nel 1985 i membri repubblicani del Congresso avevano, in media, una percentuale di fedeltà del 75,5% nei voti di Camera e Senato. Un ulteriore balzo in avanti viene registrato negli anni Novanta, Così, nel 1993-94, i senatori democratici hanno votato per le proposte di legge dell’amministrazione Clinton nell’85,3% dei casi, mentre i repubblicani hanno votato contro nell’81,6% dei casi.
Nel 2003-2004 e 2005-2006, troviamo una disciplina superiore da parte dei senatori repubblicani (che votano con Bush nel 91,8% e 87,2% dei casi) mentre i democratici, pur compatti, seguono la linea del partito rispettivamente nell’84,9% e nell’87,1% delle votazioni.
Alla Camera, dove i repubblicani erano in maggioranza anche nel 2001-2002, i deputati manifestano un livello di disciplina forse mai raggiunto nella storia americana, sfiorando o superando il 90% di voti a favore dell’amministrazione nell’arco dei sei anni 2001-2006. I democratici mostrano una coesione minore, fra l’85 e l’88 per cento, ma ancora elevata. Un solo esempio: nel periodo 2005-2006 (il Congresso eletto nel novembre 2004) troviamo ben 98 deputati che votano con il proprio partito almeno nel 95% dei casi. Escludendo due deputati che hanno partecipato a sole 27 votazioni su oltre 1200, troviamo nei primi 20 posti nella graduatoria della disciplina di gruppo 18 repubblicani e 2 democratici, questi ultimi al 19° e al 20° posto. Questi sono i deputati che hanno votato dal 100% al 96,6% dei casi come prescrivevano i rispettivi whip.
L’analisi del voto di deputati e senatori ci dice che, nel lungo periodo, i repubblicani sono maggiormente motivati e compatti: la media del periodo è al Senato l’86,5% di voti senza defezioni e alla Camera raggiunge l’87%. Malgrado iniziative eccezionalmente controverse nel Paese, come l’impeachment di Bill Clinton nel 1998-99 e la guerra in Iraq nel 2003, il partito è riuscito quasi sempre a far votare i propri parlamentari a favore delle scelte della leadership.
Questa analisi cosa ci permette di concludere? Innanzitutto che solo paesi con una classe dirigente relativamente coesa, dotata di spirito pubblico e di grande rispetto per le istituzioni possono affrontare periodi di “grande coalizione”. Questi periodi sono in genere brevi, imposti da un’emergenza bellica, e si concludono quando uno dei due partiti maggiori decide di farsi interprete dei malumori che crescono nel Paese. Nelle elezioni del 1945 i laburisti furono beneficiari del desiderio di voltare pagina, malgrado i conservatori avessero come leader l’eroe che aveva portato il Paese alla vittoria: Winston Churchill. Occorre, inoltre, che nella società ci sia un altrettanto forte desiderio di cooperazione, e di sperimentazione di strade nuove: il bipolarismo radicalizza e irrigidisce le posizioni non solo dei partiti ma anche degli attivisti e dei cittadini: gli accordi di vertice sono quindi estremamente difficili (tanto più in un’epoca in cui i leader, la mattina, leggono i sondaggi ancora prima di bere il caffè).
In Italia esistono tutte queste condizioni?