giovedì 20 marzo 2008

Il tabù della recessione

(da CFP News - Anno 4 Numero 120 - 21 marzo 2008)

di Valentina Pasquali - Washington DC

Gli Stati Uniti stanno scivolando in una recessione economica come non si vedeva da decenni. Gli esperti ed il pubblico americano mostrano segni crescenti di preoccupazione per il rallentamento dell’economia che continua inarrestabile, nonostante la serie di interventi d’urgenza delle istituzioni finanziarie e del governo. Eppure i candidati in corsa per le presidenziali 2008 appaiono inspiegabilmente restii ad affrontare seriamente i temi della crisi. Parlare di recessione, uno degli spettri più temuti dalla società americana fondata sulla crescita costante dei consumi, non è considerata una buona strategia elettorale.
La conseguenza più eclatante della crisi, cominciata quando la bolla speculativa che aveva causato il boom del mercato immobiliare è scoppiata tra il 2006 e il 2007, è che l’anno scorso circa 1 milione e 300 mila abitazioni sono tornate nelle mani delle banche, il 79% in più rispetto al 2006, a causa del mancato pagamento delle rate del mutuo da parte dei proprietari indebitati. Il Ministro del Tesoro americano Henry Paulson ha dichiarato il 3 marzo che questo numero potrebbe raggiungere i 2 milioni nel 2008 e che i prezzi, già scesi del 9% nelle maggiori aree metropolitane, scenderanno ancora.
Gli effetti del crollo del mercato immobiliare hanno avuto ripercussioni immediate sugli altri settori dell’economia. L’indice dei prezzi al consumatore è cresciuto dello 0,3% in febbraio, e l’inflazione negli ultimi 12 mesi è stata del 4%. Le vendite dirette al consumatore sono anch’esse in calo. In febbraio sono scese dello 0.6%, la seconda diminuzione in tre mesi, un’indicazione che, come scrive il Wall Street Journal, “un pilastro dell’economia, ovvero i consumi, è in difficoltà”. In calo infine anche la produzione industriale, dello 0,5% in febbraio.
La Federal Reserve è intervenuta tagliando ripetutamente i principali tassi d’interesse (Federal funds rate e Discount rate) a partire dal luglio scorso, nella speranza di iniettare liquidità nei mercati finanziari, diminuendo il costo del denaro. Martedì la banca centrale americana ha abbassato per l’ennesima volta il Federal funds rate (il tasso d’interesse calcolato sulle transazioni inter-bancarie), portandolo al 2,25% dal 3% precedente. È il taglio più cospicuo mai effettuato dalla Fed dal 1994, anno in cui ha cominciato a rendere pubbliche le proprie decisioni in termini di politica monetaria.
Il 13 febbraio, il Presidente Bush ha firmato un pacchetto di stimolo economico per 168 miliardi di dollari, anche se per il momento non si è reso disponibile ad approvare altre misure nonostante le pressioni del Congresso. L’Amministrazione Bush è preoccupata che ulteriori interventi richiedano un’innalzamento delle tasse, a cui l’attuale Presidenza è naturalmente contraria.
Nonostante i tentativi di Governo, Congresso e Banca Centrale di arrestare la crisi, il mercato non dà segnali di ripresa e il dollaro è in continuo calo. L’Euro ha toccato un nuovo massimo storico martedì, scambiato per 1.59 bigliettoni verdi.
Gli esperti statunitensi hanno cominciato di recente a chiamare la crisi con il nome giusto. In un sondaggio telefonico condotto dal Wall Street Journal tra il 7 e l’11 marzo, 36 dei 51 economisti contattati, ovvero oltre il 70%, si sono detti d’accordo che l’economia americana è già entrata in una fase di recessione, e non sta semplicemente attraversando una crisi passeggera. Più della metà degli intervistati ritiene inoltre che la situazione quest’anno si rivelerà peggiore di quella del 2001 e del 1990-1991.
Gallup ha pubblicato mercoledì 19 marzo i risultati dell’ultimo rilevamento effettuato sull’opinione del pubblico americano riguardo allo stato dell’economia nazionale. Il 76% degli intervistati si è detto convinto che gli Stati Uniti sono già in recessione. Nell’ottobre 2007 solo il 36% della popolazione la pensava a questa maniera. In un altro sondaggio, effettuato il 13 marzo, Gallup ha trovato che l’86% degli americani credono che le condizioni economiche stiano peggiorando di giorno in giorno. Di conseguenza, il 35% degli intervistati vede ora l’economia come il problema più importante, quasi il doppio del 18% registrato solo in gennaio.
Nonostante la situazione appaia ormai critica ai più, sembra esserci tra i candidati alla presidenza un imbarazzo diffuso nel parlare apertamente di recessione. John McCain, dell’economia quasi non parla, sperando di essere giudicato dagli elettori americani quasi esclusivamente sugli sviluppi dell’occupazione militare dell’Iraq. Anche i candidati alla nomination democratica, Hillary Clinton e Barack Obama, nonostante abbiano un approccio più deciso nell’affrontare temi di politica economica del loro rivale repubblicano, invece che proporre un programma coerente per uscire dalla recessione e riformare l’economia, si limitano ad attaccare NAFTA (North American Free Trade Agreement) come fosse la causa di tutti i problemi americani. Nessuno dei due ha ancora ufficializzato una propria strategia per affrontare la crisi che ha ormai infettato i mercati finanziari, come se sperassero che se ne vada da sola, o grazie agli interventi della Federal Reserve.
Valentina Pasquali