venerdì 7 marzo 2008

Clinton v. Obama: il rompicapo democratico

(da CFP NEWS Anno 4 Numero 118 – 7 marzo 2008)

di Fabrizio Tonello

Fino a martedì mattina, la “storia dominante” sulla stampa indipendente americana era grosso modo questa: “Barack Obama è l’uomo nuovo, il Messia di questa stagione politica, la sua corsa verso la Casa Bianca è semplicemente inarrestabile”. Da giovedì, la nuova linea narrativa a cui sottoscrivono la maggior parte dei giornalisti è: “Hillary Clinton è una donna veramente tosta, ha dimostrato di essere in grado di risorgere, Obama è simpatico ma non è abbastanza duro per diventare Presidente”. Naturalmente, nessuna di queste due parabole dà conto di una realtà complessa e mutevole come quella della competizione per la nomination, del resto il compito del giornalismo moderno non è quello di dar conto dei fatti ma quello di intrattenere il suo pubblico (per un approfondimento, si veda qui).
Per capire cosa sta succedendo occorre prima di tutto guardare ai numeri e alle mappe politiche degli Stati Uniti. Cominciamo dai numeri: a causa del metodo proporzionale con cui sono eletti i delegati nel partito democratico, nessuno dei due candidati è in grado di arrivare alla fine della stagione delle primarie con una maggioranza autosufficiente. Gli ultimi conteggi prevedono che Obama avrà bisogno di 349 “superdelegati” per raggiungere il numero magico di 2.025. La Clinton dovrebbe ottenere il sostegno di circa 450 notabili e dirigenti del partito, da aggiungere ai delegati conquistati nelle primarie, per diventare il candidato democratico nella convention di Denver.
Le ragioni di questa strana situazione (normalmente, i candidati vincenti emergono abbastanza presto nella maratona elettorale attraverso i 50 Stati) sono due: prima di tutto Hillary e Obama sono candidati di forza quasi pari (hanno ottenuto circa 12 milioni di voti ciascuno nelle primarie svoltesi fin qui) ed entrambi hanno un sostegno vero in pezzi importanti dell’elettorato; in secondo luogo, la maggioranza di 2.025 è calcolata includendo i delegati di Michigan e Florida, due grossi Stati che insieme hanno 366 delegati. Questi ultimi sono stati esclusi perché hanno violato le regole stabilite dal Comitato Nazionale del partito sul calendario delle primarie e ora che la loro assenza peggiora il rompicapo democratico sono in corso frenetiche trattative per decidere cosa fare.
Due candidati senza una maggioranza chiara, entrambi con forti personalità e determinati ad andare fino in fondo, sarebbero una catastrofe politica in qualsiasi situazione, tanto più lo sono quest’anno, visto che i repubblicani hanno risolto il loro problema già l’altroieri, con il senatore dell’Arizona John McCain che ha superato la maggioranza dei delegati ed è così diventato il candidato ufficiale del partito.
A complicare ulteriormente la situazione sta il fatto che i profili dei due candidati, Clinton e Obama, rendono legittime due interpretazioni opposte della loro “eleggibilità” in novembre, che è la considerazione centrale nella mente dei leader del partito. Vincendo in Texas e in Ohio, dopo aver già ottenuto la maggioranza dei consensi in California, New York e New Jersey, Hillary Clinton può a buon diritto sostenere di essere il candidato democratico che vince nei grandi Stati, quelli decisivi per la coalizione democratica in novembre. Con una battuta evidentemente pensata in anticipo, dopo il risultato di martedì notte ha sottolineato che “nessun candidato democratico o repubblicano ha mai vinto la Presidenza senza aver vinto le primarie in Ohio” (ed è tanto vero che se John Kerry avesse avuto 120.000 voti in più lì, su 120 milioni di suffragi a livello nazionale, avrebbe battuto Bush già nel 2004). Una vittoria della Clinton in Pennsylvania il 22 aprile (dove sono in palio 158 delegati e i sondaggi la danno favorita) rafforzerebbe enormemente la sua tesi.
Dal canto suo, Barack Obama incarna la strategia della sinistra del partito, che non vuole limitarsi a consolidare il tradizionale (e spesso perdente) blocco democratico, ma vuole parlare agli elettori di tutti i 50 Stati e convincerli che i repubblicani hanno portato l’America sull’orlo del disastro. Le vittorie di Obama in Alabama o South Carolina, assieme a quelle in Utah, Idaho, Nebraska, North Dakota, Kansas e Alaska promettono di mettere insieme una nuova coalizione, aperta a elettori indipendenti e repubblicani delusi. Nel lungo periodo questa è certamente la strategia di maggior respiro ma, nell’immediato, resta vero che in questi Stati nessun candidato Democratico ha vinto un’elezione presidenziale dal 1964.
La scelta fra queste due strade, e questi due candidati, dipenderà quindi da una valutazione dei leader del partito (e degli elettori della Pennsylvania): “Nel 2008, possiamo gettare le vecchie mappe geopolitiche dell’America o no?” L’opinione di un conservatore che se ne intende, Michael Barone, è che sì, si può. L’opinione dei consulenti della Clinton Mark Penn e Harold Ickes è che no, non si può. C’è solo da sperare che il dilemma sia risolto senza una lotta fratricida, ben inquadrata dalle telecamere, nel prossimo agosto a Denver.