Washington, DC - Oggi si parla molto anche in Italia della famosa politica di Tolleranza Zero resa famosa dal sindaco di New York Rudy Giuliani e dal suo capo della polizia William J. Bratton negli anni Ottanta. Si propongono nuove leggi a “Tolleranza Zero” per il consumo di droga, o contro l’accattonaggio, si parla di “ronde” composte di volontari per soddisfare il bisogno di sicurezza dei cittadini. Ma questa teoria da dove viene? E, soprattutto, negli Stati Uniti, ha funzionato?La Tolleranza Zero ha le proprie radici nella teoria cosidetta “broken windows”, del criminologo George L. Kelling. Nell’opinione di Kelling e dei suoi seguaci, un’applicazione aggressiva della legge anche nel caso di infrazioni marginali, come ad esempio il mancato pagamento del biglietto della metropolitana, creando un’atmosfera di legalità ed il senso della presenza pervasiva delle forze dell’ordine, nel lungo periodo contribuisce alla diminuizione del tasso di criminalità complessivo.Secondo dati pubblicati dal JFA Institute, un’organizzazione non-profit che lavora in collaborazione con il governo alla valutazione dell’efficienza del sistema penitenziario, nel 1970 c’erano 196.429 carcerati nelle prigioni federali e statali americane. Oggi questo numero è salito a 1,5 milioni, a cui vanno aggiunti i 750.000 che si trovano nelle carceri locali. Secondo altri dati rilasciati dall’International Center for Prison Studies del King’s College di Londra e pubblicati mercoledì dal New York Times, gli Stati Uniti sono in testa alla graduatoria mondiale dei detenuti, molto avanti rispetto alla Cina, che, pur avendo una popolazione cinque volte superiore a quella americana, ha “solo” 1,6 milioni di carcerati. La percentuale di persone incarcerate sul numero totale di abitanti sottolinea ancor più gravemente la situazione. 751 Americani ogni 100.000 si trovano in prigione. Se si considera esclusivamente la popolazione adulta, ci dice uno studio del Pew Charitable Trusts, circa un Americano su 100 è dietro le sbarre. La Russia ha “solo” 627 carcerati per 100.000 abitanti, l’Inghilterra 151 e il Giappone 63.La crescita inarrestabile nel numero dei carcerati americani è iniziata a metà degli anni Settanta. Secondo i dati relativi al periodo 1925-1975, c’erano circa 110 persone in galera per 100.000 abitanti. Poi gli Stati Uniti sono stati travolti dall’ondata politico-populista della Tolleranza Zero, e dalle conseguenze che quest’ultima ha avuto in particolare sulla cosidetta “War on Drugs”, iniziata già nel 1971 da Richard Nixon e culminata nel 1988 con la creazione da parte di Ronald Reagan dell’Office of National Drug Control Policy, un ente governativo incaricato di coordinare l’attività dei vari ministeri nella lotta alla droga. L’inasprimento delle sentenze per crimini legati al traffico e al consumo di stupefacenti ha contribuito significativamente all’aumento della popolazione carceraria americana. Nel 1980 40.000 persone erano in galera per crimini legati alla droga. Questo numero è salito oggi a quota 500.000.Naturalmente, all’aumento del numero di carcerati è corrisposto un pari aumento dei costi del sistema penitenziario. Secondo i dati del Pew Charitable Trusts, le prigioni americane costavano 9 miliardi di dollari l’anno 25 anni fa, e ne costano oggi 60 miliardi. E si prevede un carico addizionale di 27,5 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni, necessario a far fronte all’espansione e alla manutenzione delle infrastrutture che devono ospitare il numero crescente di carcerati. Il conto è salato anche per le casse statali. Un diverso studio pubblicato dal Pew Charitable Trust all’inizio del 2008, ha rilevato che nel 1987 gli stati americani spendevano complessivamente 10,6 miliardi di dollari del proprio budget per il sistema correzionale. Dieci anni più tardi, nel 2007, questa cifra era salita a 44 miliardi di dollari, un balzo del 315%. Nello stesso periodo, per fare un esempio, la spesa per l’educazione universitaria è cresciuta del 21%, quindici volte di meno.
Valentina Pasquali
Valentina Pasquali