venerdì 18 aprile 2008

Dalla Pennsylvania al Veneto

E’ significativo che le primarie in Pennsylvania, martedì prossimo, e le elezioni in Italia, domenica scorsa, abbiano portato alla ribalta lo stesso tema: per chi vota la classe operaia? Negli Stati Uniti Hillary Clinton ha lanciato un furioso attacco contro Barack Obama per una frase in cui il suo antagonista per la nomination diceva che molti ex operai che vivono in città dove i posti di lavoro sono scomparsi 25 anni fa e non sono stati sostituiti da nessun nuovo tipo di opportunità, “sono amareggiati e si attaccano alle armi da fuoco, alla religione o all’ostilità verso chi non è come loro (…) come modo di esprimere la loro frustrazione”. Hillary, rivelando una volta di più la stupefacente profondità del suo cinismo, ha immediatamente confezionato uno spot televisivo, e moltiplicato le dichiarazioni, per accusare Obama di essere “antireligioso”. Poiché nella politica americana la religione è un tema delicato (e usualmente sfruttato dai repubblicani) il New York Times è sceso in campo con un editoriale dicendo sostanzialmente ai due candidati democratici di parlare d’altro (per esempio l’Iraq e l’economia) invece di farsi male a vicenda su questo tema.Ma, naturalmente, il problema non è solo la religione: è il dibattito che va avanti da anni negli Stati Uniti sui motivi per cui molti lavoratori che avrebbero tutto l’interesse a sostenere i candidati democratici votano invece per i repubblicani. In fondo anche l’Italia, all’indomani del voto, scopre di non essere un paese così “anomalo”: anche da noi molti operai votano per la destra, in particolare per la Lega. Come in Francia hanno votato, fin dagli anni Ottanta, per Le Pen.Negli Stati Uniti, la percentuale di voto operaio bianco che va ai candidati democratici non è mai stata molto alta, oscillando nel dopoguerra attorno al 50% (un’analisi più approfondita qui). Alcuni studiosi ne hanno fatto un fenomeno regionale, legato alla fine della segregazione razziale nel Sud e all’antipatia che i lavoratori manuali bianchi hanno nutrito dal 1965 in poi verso il partito che aveva permesso ai neri di votare, i democratici. Ma ci sono buone ragioni per credere che, in realtà, il vero motore dell’ostilità verso un partito che viene percepito come dominato dalle minoranze (borghesia progressista, donne in carriera, afroamericani) e indifferente alle sorti delle vittime della crisi economica sia un profondo risentimento.Ohio, Pennsylvania, Indiana, sono grandi stati che contengono numerose aree di antica industrializzazione, devastate dallo spostamento delle fabbriche all’estero, o dalla loro semplice chiusura e non sostituite da posti di lavoro fruibili per gli ex operai delle acciaierie. La loro ostilità verso l’immigrazione è simile a quella delle aree pedemontane dove la Lega ha ottenuto i maggiori consensi, non tanto perché i lavoratori siano intrinsecamente xenofobi quanto perché è forte la sensazione di abbandono, di non avere voce, di essere abbandonati in balia di forze incomprensibili come il mercato globale. Al contrario le minoranze di professionisti delle grandi città profittano della globalizzazione e non la temono.La sinistra americana, come quella italiana, ha dato la sensazione di essere più attenta ai diritti civili che a quelli economici, difendendo il libero scambio e l’immigrazione più che il salario, la casa o la sicurezza nei quartieri. Le scelte dei candidati vanno nello stesso senso: per quanto abbia improvvisato un messaggio economico populista nelle ultime settimane, Hillary Clinton rimane la moglie del presidente che ha fatto approvare il mercato unico con Messico e Canada (NAFTA) con i voti repubbicani e contro la maggioranza del suo partito. Così Massimo Calearo, rappresentante di un grande gruppo ed ex presidente di Federmeccanica, difficilmente viene percepito come “uno di noi” dagli ex operai che si sono messi in proprio rischiando la liquidazione per aprire un’azienda i cui unici dipendenti sono la moglie, due figli e, forse, un cugino.La credibilità di una proposta elettorale, per una legge elementare della comunicazione politica, si costruisce nel tempo e le candidature improvvisate non scalfiscono le percezioni dei leader che si sono consolidate negli anni precedenti. Gli operai esistono, e votano: come ha detto Massimo Cacciari al convegno di Milano lo scorso febbraio, qualsiasi partito che voglia chiamarsi “democratico”, “laburista” o “socialdemocratico” farà bene a ricordarselo.
Fabrizio Tonello