E’ caldo, questo Paese ha perso la testa, le parole non hanno più alcun significato e i politologi vogliono “educare l’elettorato” invece di capire come funziona il sistema politico. I lettori della newsletter saranno quindi indulgenti con me per l’accostamento blasfemo che ho fatto nel titolo tra Franklin Delano Roosevelt e il politico italiano noto come Colui-Che-Non-Può-Essere-Nominato (men che meno da Veltroni in campagna elettorale).Colui-Che-Non-Può-Essere-Nominato ha riempito le pagine dei quotidiani, da quando è tornato al potere, con i suoi progetti di riforma della giustizia, a suo dire necessari per “permettergli di governare” e per “metter fine alle aggressioni di una magistratura ostile”. Forse non tutti sanno che problemi simili ebbe anche Roosevelt, dopo la trionfale rielezione nel novembre 1936 di cui abbiamo accennato la settimana scorsa. Nel caso del presidente americano non c’erano però motivazioni personali, come inchieste per corruzione, perché sappiamo che negli Stati Uniti la giustizia la prendono sul serio, invece di ribattezzarla “giustizialismo” com’è di moda in Italia fra gli ignoranti che non hanno mai sentito parlare del movimento di Juan Domingo Peron in Argentina, unico titolare del marchio (vedasi filmato su YouTube per chi ha bisogno di corsi di recupero).No, il problema di Roosevelt era che effettivamente la Corte Suprema gli impediva di governare annullando tutti i principali provvedimenti del New Deal in nome dell’ortodossia economica di cui si faceva paladina. La reazione del presidente fu una proposta straordinaria: allargare la composizione della Corte da 9 a 15 giudici, approfittando di una scappatoia costituzionale. L’articolo III della carta fondamentale degli Stati Uniti, infatti, prescrive che ci sia una Corte Suprema ma non specifica il numero dei giudici, quindi una legge ordinaria sarebbe stata sufficiente per portare il numero da 9 a 15, o anche a 99, in teoria.Il 9 marzo 1937, Roosevelt cercò di presentare la sua riforma scegliendo un basso profilo ma, naturalmente, tutti sapevano che lo scontro era politico. Benché fosse stato rieletto con maggioranze oceaniche e disponesse di una maggioranza parlamentare amplissima, Roosevelt incontrò immediatamente una forte opposizione, sia all’interno del suo gabinetto che in Senato, mentre i giornali battezzarono la riforma Court-packing plan (piano per “imbottire” di giudici fedeli la Corte suprema). In commissione, i senatori definirono il progetto “un abbandono dei principi costituzionali inutile, senza precedenti, futile e pericoloso”. Roosevelt contava ancora sul voto in aula ma il leader dei senatori Joseph Robinson morì proprio alla vigilia dello scrutinio, il 14 luglio 1937, lasciando il gruppo democratico in Senato privo di guida. Il risultato fu un voto schiacciante contro il progetto: 70 a 20.Forse sarebbe troppo chiedere all’attuale presidente del Senato di mostrare altrettanta sollecitudine per le sorti della nostra Costituzione, visto che era uno degli artefici dello sciagurato progetto di revisione cancellato a larga maggioranza da un referendum popolare nel corso del precedente mandato di Colui-Che-Non-Può-Essere-Nominato. Né possiamo aspettarci soverchia preoccupazione per la separazione fra Esecutivo e Giudiziario da parte di chi ha ripreso in toto i progetti della P2 per mettere i pubblici ministeri agli ordini del governo. E nemmeno dovremmo dare per acquisito che i nostri attuali ministri intendano il significato di Rule of Law, tre semplici parolette inglesi di origine liberale-doc.Possiamo soltanto sperare che, in mancanza di meglio, l’esperienza della sconfitta di Roosevelt faccia riflettere, se non Colui-Che-Non-Può-Essere-Nominato almeno qualche componente della sua maggioranza, dove non tutti sono entusiasti di spendere capitale politico sul tema dell’immunità per la classe politica (quella che negli Stati Uniti ovviamente non esiste, cosa che a quanto pare sfugge ai commentatori del Corriere della sera).
Fabrizio Tonello