venerdì 11 luglio 2008

Alfred Landon, Michael Dukakis e Walter Veltroni

Walter Veltroni è sempre stato un appassionato di Stati Uniti quindi dovrebbe sapere che nel 1936 i repubblicani, disastrosamente sconfitti da Franklin Roosevelt quattro anni prima, presentarono come candidato alle presidenziali Alfred Landon, il governatore del Kansas. Landon rappresentava l’ala progressista del partito e condusse una campagna all’insegna del “Sì, ma”, facendo sapere agli elettori che era in gran parte d’accordo sugli obiettivi del New Deal, ma non sui metodi, e sostenendo che i repubblicani avrebbero potuto essere migliori gestori della ricostruzione economica di quanto non fossero i democratici.
Landon ottene un certo successo in novembre: il partito raccolse 16,7 milioni di voti contro i 15,8 di Herbert Hoover nel 1932: quasi un milione di voti in più. Peccato che Roosevelt, lo stesso giorno, ottenesse undici milioni di voti più di Landon, portando il distacco a 24 punti percentuali (60,9% contro 36,6%).
Landon, come i candidati successivi nel 1940 (Wendell Willkie) e nel 1944 (Thomas Dewey) era un’esponente di quella sfortunata generazione di candidati repubblicani che, di fronte alla popolarità e alla completa egemonia intellettuale del New Deal, non potevano trovare di meglio della politica del “Me, too”. Elezione dopo elezione dicevano ai cittadini “anche noi, anche noi” siamo capaci di gestire l’economia, far uscire il paese dalla Depressione, vincere la guerra. Purtroppo, gli americani continuarono a preferire l’originale alla copia per ben 20 anni, fino al 1952, quando la guerra di Corea e la popolarità del generale Eisenhower non fecero tornare alla Casa Bianca un repubblicano.
Il contrappasso dei democratici è stato più breve ma non meno duro per il partito: dopo l’elezione di Ronald Reagan nel 1980, per 12 anni i democratici scelsero dei candidati “Me, too”. Anche loro sarebbero stati capaci di ridurre le tasse, aumentare le spese militari, tagliare i servizi sociali: lo avrebbero fatto però in modo diverso, più compassionevole ed efficace dei repubblicani. Così Walter Mondale nel 1984 e Michael Dukakis nel 1988 cercarono di contrastare la popolarità di Reagan e la completa egemonia intellettuale del conservatorismo dialogando con i repubblicani e proponendo le loro versioni della riduzione delle tasse o del riarmo. Come prevedibile, gli americani continuarono a preferire l’originale alla copia.
Queste fasi storiche di debolezza dei due partiti americani hanno un’origine comune e ben identificata: il discredito in cui a volte cadono le idee di un partito a causa di eventi contingenti, come il crack di Wall Street nel 1929, o la stagflazione degli anni Settanta. Se a questo si aggiunge la popolarità personale del leader avversario, è comprensibile che i partiti di opposizione siano tentati di proporsi come pallida imitazione del partito di governo: una versione “Me, too” di chi gode la fiducia degli elettori.
I casi di Landon, Willkie, Dewey, Mondale e Dukakis dimostrano però che si tratta di scelte perdenti e questo non per motivi effimeri, o tattici, o di personalità: una legge bronzea della politica moderna sembra essere questa: “E’ sbagliato rinunciare a combattere l’egemonia intellettuale dell’avversario, anche quando questa sembra allo zenit”. Non esistono idee, o leader, che non si logorano nel tempo e gli elettori vogliono dall’opposizione A Choice, Not an Echo, titolo di un influente pamphlet di Phillys Schafly, che nel 1960 aveva capito questo principio meglio di quanto non accada oggi a molti politici italiani. La candidatura di Goldwater del 1964 fu la premessa della vittoria di Richard Nixon nel 1968 e del trionfo di Ronald Reagan nel 1980. O, come dice un simpatico politologo italiano prestato alla politica attiva, “Meglio perdere che perdersi”.
Fabrizio Tonello