(da: CFP NEWS, anno 4 Numero 111 – 18 gennaio 2008)
La campagna di quest'anno per la presidenza avviene alla fine di un ciclo politico in cui la società americana è estremamente cambiata: tra il 1980 e il 2000, un periodo in cui i repubblicani hanno avuto successo nel ridurre le tasse per gli alti redditi anche quando il Congresso era controllato dai democratici, negli Stati Uniti la disuguaglianza economica è aumentata a livelli sconosciuti dopo la Grande Depressione. In questo arco di tempo, in dollari costanti, il reddito netto dello 0,1% degli americani più ricchi è passato dallo 0,5% del reddito nazionale al 3%, cioè si è moltiplicato per sei volte. Nel 1970, il reddito medio dei superricchi era «soltanto» 50 volte il reddito medio dell'insieme della popolazione, nel 2002, era diventato circa 300 volte. Il reddito dell'1% degli americani in cima alla scala dei redditi è passato dall'8% del reddito nazionale nel 1978 al 17% nel 1999, avvicinandosi allo storico record del 1928, quand'era attorno al 20%.
Due economisti specializzati nello studio della dinamica storica degli alti redditi hanno tratto la conclusione che "il declino nella progressività della tassa sul reddito fin dal 1980, la riduzione nelle aliquote delle tasse sui dividendi nel 2003 e la progettata cancellazione della tassa di successione nel 2011 potrebbero condurre di nuovo, entro pochi decenni, a livelli di concentrazione della ricchezza simili a quelli dell'inizio del XX secolo" (Piketty-Saez, di prossima pubblicazione).Forse la lotta di classe non esiste più ma ai miliardari americani non lo ha ancora detto nessuno.
La disuguaglianza sociale non poteva non ripercuotersi sulla disuguaglianza politica, perché la frazione più ricca della popolazione ha efficaci strumenti di lobby per difendere i propri interessi. Non solo: anche la partecipazione al voto non è distribuita omogeneamente tra le classi sociali. Mentre il 95% degli americani con un reddito superiore a 75.000 dollari vota (una percentuale superiore a quelle europee) meno del 50% di chi vive con un reddito inferiore a 15.000 dollari l'anno esprime il suo suffragio. Questo ha a che fare con le modalità tecniche del voto (registrazione volontaria e non automatica, voto in un giorno non festivo) che costituiscono barriere più faticose da superare per chi è povero o meno istruito. Resta il fatto che è soprattutto la sensazione di non poter influire sul processo politico che tiene lontani dalle urne gli americani di condizione modesta.
Benché i due partiti maggiori siano sempre stati in stretti rapporti con le élite economiche, storicamente i sindacati avevano un certo peso nel partito democratico. La loro quasi scomparsa ha lasciato un vuoto che le associazioni ecologiste o delle minoranze etniche non possono colmare. Non stupisce, quindi che a partire dalla metà degli anni Settanta si sia assistito a un sostanziale rafforzamento dell'influenza del denaro sulle campagne elettorali, influenza che quest'anno ha superato ogni precedente.
Nel 1992, la prima campagna presidenziale dei Clinton, il totale raccolto dai due partiti in vista delle elezioni ammontava a circa 620 milioni di dollari: una cifra enorme ma molto lontana da quella che sarebbe stata spesa solo 12 anni dopo. Per le elezioni del 2004 (Camera, Senato e presidenza) i due partiti hanno avuto a loro disposizione circa 1.450 milioni di dollari. In entrambi i casi, i repubblicani hanno goduto di finanziamenti superiori. Quest'anno, le previsioni sono di superare il miliardo di dollari per i soli candidati alla presidenza, senza calcolare quanto verrà raccolto dai 66 candidati a un seggio in Senato e dagli 870 candidati alla Camera, di cui quest'anno si parla ben poco. L'aumento delle spese è essenzialmente dovuto alla professionalizzazione delle campagne elettorali, sempre più condotte da esperti dei sondaggi, della pubblicità, dell'uso dei media, che vengono retribuiti a caro prezzo. Soprattutto, l'inesistenza di un settore televisivo pubblico fa sì che i candidati debbano comprare lo spazio per la loro pubblicità da emittenti commerciali che se lo fanno ben pagare. Nei principali media markets, per raggiungere una quota di popolazione significativa occorre spendere milioni di dollari.
Dal 2004, il Bipartisan Campaign Reform Act del 2002 ha raddoppiato i limiti del cosiddetto hard money, i contributi individuali a partiti e candidati (in precedenza non più di $1.000 l'anno) e invece vietato i contributi senza limiti ai partiti nazionali noti come soft money. Nel dicembre 2003, la Corte Suprema ha accettato questa impostazione. Da allora, molti sostenitori dei partiti che avevano usato come forma di finanziamento il soft money sono passati alle donazioni ai cosiddetti advocacy groups, cioè organizzazioni indipendenti che in teoria non dovrebbero essere legate ai partiti e che sono note nel gergo politico americano come «527» (dall'articolo del codice fiscale che definisce il loro status). I 527 sono diventati estremamente importanti: nel 2004 furono gli attacchi personali organizzati attraverso di loro a indebolire in modo fatale la candidatura di John Kerry.
Le campagne elettorali fino alla metà degli anni Settanta avevano un costo relativamente limitato, un ricorso alla televisione modesto e una raccolta fondi decentralizzata. Quest'ultimo era il fattore che maggiormente favoriva i candidati uscenti, che avevano già mostrato, durante il loro mandato, di essere degli alleati affidabili per le costituencies locali a cui chiedevano donazioni. Un senatore, o un deputato, si rivolgevano a finanziatori in massima parte locali, tanto più generosi quanto i politici erano in grado di mantenere le promesse, com'era il caso soprattutto dei potenti presidenti di commissione, sostanzialmente inamovibili grazie al sistema dell'anzianità e talvolta più potenti dello speaker della Camera o dello stesso Presidente. Solo fra il 2002 e il 2006, i candidati uscenti per un seggio del Senato hanno quasi raddoppiato le cifre raccolte (da 5,8 a 11,3 milioni di dollari), un ritmo che è stato tenuto anche dagli sfidanti (nel 2006 con 1,8 milioni raccolti in media) il che però significa che la voragine nella disponibilità di fondi fra i primi e i secondi è passata da 4,8 milioni nel 2002 a 9,5 milioni oggi. Le medie, inoltre, non danno un'immagine accurata di casi come quelli di Jon Corzine, un miliardario che nel 2000 decise di spendere 60 milioni di dollari della sua fortuna personale per diventare senatore del New Jersey sotto l'etichetta del partito democratico. Hillary Clinton nel 2006 ha raccolto, per la sua campagna al Senato, oltre 51 milioni di dollari (spendendone 41), di Rick Santorum, repubblicano della Pennsylvania (28,6 milioni) , di Joe Lieberman, ex democratico e ora indipendente del Connecticut (20,2 milioni).
Alla Camera, la situazione è simile: fra il 2002 e il 2006, i candidati uscenti per un seggio hanno aumentato di un terzo le cifre raccolte, un po' meno di quanto abbiano fatto gli sfidanti (+43%). Il gap nella disponibilità di fondi, tuttavia, rimane superiore a 4 contro 1. Alcune circoscrizioni, come la 13° e la 22° della Florida, hanno battuto tutti i record di spesa precedenti: nella prima il repubblicano Vernon Buchanan ha speso oltre 8 milioni di dollari contro i 3 del candidato democratico Christine Jennings (ha vinto il primo per soli 323 voti). Nella 22° circoscrizione, le dimissioni del deputato repubblicano uscente non hanno impedito al suo sostituto dell'ultima ora di spendere oltre 5 milioni di dollari, solo per essere sconfitto da uno sfidante democratico (anch'egli
ben finanziato) che ne ha spesi oltre 4. Quasi identica la dinamica nella circoscrizione n. 8 dell'Illinois, dove un democratico che ha raccolto 4 milioni di dollari è riuscito a prevalere su un repubblicano uscente che ne aveva a disposizione 5.
Per quanto interessa a noi in questa sede, l'esplosione dei costi della politica americana si manifesta chiaramente nelle somme raccolte dai candidati alla nomination fin qui: fino al 31 ottobre scorso, Hillary Clinton aveva raccolto circa 90 milioni di dollari, Barack Obama 80 e gli altri candidati insieme circa 70, cifre che sono enormemente aumentate nell'ultimo mese, cioè da quando la campagna elettorale è entrata nel vivo.
Quest'anno, i candidati repubblicani sembrano sorprendentemente in difficoltà: alla stessa data Romney aveva raccolto solo 63 milioni, Giuliani 47 e McCain 32. Quest'ultimo, ancora un mese fa, era dato per "fuori gioco" dai commentatori non tanto per il merito delle sue posizioni politiche e per la sua credibilità come candidato ma semplicemente per il fatto che non era più in grado di pagare i collaboratori. La sua vittoria nelle primarie del New Hampshire gli ha dato una boccata d'ossigeno nella raccolta fondi ma, per avere delle chances di successo, dovrà raccogliere rapidamente le cifre necessarie a pagare la propaganda elettorale nei 47 stati dove non si è ancora votato.
Complessivamente, il significato di questa competizione per la raccolta fondi è molto semplce: i candidati possono adottare una retorica populista (e quest'anno lo fanno anche più volentieri del solito) ma ciò che non possono fare è scontentare i grandi donatori. L'unico che, fino ad oggi, ha dimostrato una certa capacità di raccogliere piccole somme via internet è Barack Obama ma per conquistare la nomination e poi restare in corsa fino alla fine per la presidenza la ricetta è una sola: ogni mattina occorre raccogliere 2 milioni di dollari, 1,3 milioni di euro, e bisogna farlo prima di sera.