venerdì 11 gennaio 2008

Elezioni americane: istruzioni per l’uso

(da CFP NEWS, Anno 4 Numero 110 – 11 gennaio 2008)

Tempo di elezioni primarie negli Stati Uniti e il chiacchericcio giornalistico si concentra sui candidati, sulle loro debolezze, i loro punti di forza, le loro strategie. A determinare la politica americana, in realtà, sono meccanismi istituzionali e politici assai mal compresi, a cominciare da quello del collegio elettorale (un’ottima mappa con anche le date in cui si tengono le primarie qui: http://www.electoral-vote.com/). Al contrario di quanto molti credono, negli Stati Uniti le presidenziali sono un’elezione di secondo grado, cioè un’elezione da parte di un apposito organo e non un’elezione diretta da parte dei cittadini. Questi votano, Stato per Stato, per liste con un certo numero di delegati, i quali si riuniscono in dicembre, oltre un mese dopo il voto popolare, ed è in questa sede che il Presidente viene eletto a maggioranza.
Tutto si basa sul compromesso in sede di convenzione costituzionale a Filadelfia, nel 1787: per convincere i piccoli stati a ratificare la Costituzione e ad accettare un governo centralizzato, fu loro garantita una uguale rappresentanza in Senato: due senatori per il minuscolo Delaware e due per la grande Pennsylvania, due senatori per il sottopopolato Rhode Island e due per il gigantesco New York. Oltre a ciò, si decise che il voto per il Presidente sarebbe avvenuto in un collegio ad hoc, composto di tanti rappresentanti di ciascuno Stato quanti erano i deputati e i senatori di quello Stato insieme. Questo assicura una certa proporzionalità fra composizione demografica e numero di delegati nel collegio elettorale, ma al prezzo di sovrarappresentare fortemente gli Stati più piccoli.
Per esempio, circa 23 milioni di abitanti sparsi tra l’Alaska e il Golfo del Messico eleggono ben 61 grandi elettori, più dei 54 elettori della California, che conta 35 milioni di abitanti, e una volta e mezzo più di New York e Massachusetts, che insieme hanno 25,4 milioni di abitanti ma devono accontentarsi di 43 grandi elettori.

Al contrario, il Massachusetts con 6,4 milioni di abitanti ha 12 grandi elettori e New York, con 19 milioni, ne ha
31: pertanto 25,4 milioni di cittadini di questi due stati dispongono soltanto di 43 voti nel collegio elettorale.
Le mappe colorate che i giornali pubblicano dopo ogni tornata elettorale per l’elezione del Presidente mostrano un continente dominato dai repubblicani (tutto il Sud e l’Ovest degli Stati Uniti, fino alle Montagne Rocciose) con alcune roccaforti democratiche sulle due coste e nel Midwest. Come si sa, nel 2000 Al Gore ebbe 539.898 voti popolari in più di George W. Bush, ma fu ugualmente sconfitto nel collegio elettorale (ipotizziamo che i risultati della Florida fossero regolari[1]) perché i repubblicani traggono enorme vantaggio dal loro dominio negli Stati rurali e poco popolati delle grandi praterie e delle Montagne Rocciose. Nel 2000, Bush ottenne tutti i voti dei grandi elettori (che all’epoca erano 59) negli stati del midwest poco popolato, mentre due soli stati con una popolazione simile, nei quali prevalse Gore, con circa 5,7 milioni di elettori, produssero 45 voti elettorali. Bush, con 5,2 milioni di voti, ottenne 59 voti elettorali, un vantaggio di 14 voti elettorali, assai superiore a quello con cui il candidato repubblicano “vinse” (271 voti elettorali contro 267 a Gore).
La situazione è peggiorata nelle elezioni del 2004, in cui circa cinque milioni di elettori repubblicani negli Stati già citati hanno ottenuto 61 grandi elettori per il loro candidato alla Casa Bianca, mentre circa sei milioni di elettori democratici hanno fornito al loro candidato John Kerry soltanto 45 grandi elettori, ben 16 di meno.
Sarà utile, a questo punto, esaminare storicamente l’ascesa del Sud nel collegio elettorale.
Mettiamo a confronto due blocchi regionali in termini di rappresentanza all’interno del collegio elettorale che elegge il Presidente: gli 11 stati dell’ex Confederazione e i tre stati-chiave del Nordest, New York, Connecticut e Massachusetts.
Come si vede, il Sud ha mantenuto a lungo una posizione abbastanza stabile all’interno del collegio elettorale: tra il 1932 e il 1972, la sua rappresentanza oscillava tra il 23,3 e il 24,2%. Dopo il 1972, in coincidenza con lo storico rovesciamento di affiliazione partitica che gettava questi 11 stati nelle braccia dei repubblicani, iniziava anche uno spostamento economico e demografico di grande ampiezza. Tra il 1972 e il 2000, la popolazione degli Stati del Sud è cresciuta molto più del resto della nazione, con milioni di nuovi cittadini che hanno preso la residenza in Texas, Florida, Georgia, Nord Carolina. Questo processo ha avuto importanti conseguenze politiche, perché i 435 seggi della Camera dei rappresentanti vengono redistribuiti tra gli Stati ogni dieci anni e la delegazione di ciascun Stato nel collegio elettorale è composta da un numero uguale alla somma di deputati e senatori.
Oggi, il blocco sudista ha guadagnato ulteriori posizioni, raggiungendo i 153 voti, ovvero il 28,4% del collegio elettorale. Non c’è da stupirsi che, nel dicembre 2002, Trent Lott, il leader della maggioranza repubblicana in Senato, avesse rivendicato esplicitamente l’eredità della segregazione razziale in occasione del 100° compleanno del senatore Strom Thurmond, il quale nel 1948 si presentò alle presidenziali su una piattaforma apertamente razzista (poi Lott fu costretto alle dimissioni, ma la strategia repubblicana non è cambiata).
Se confrontiamo il Sud con New York, Connecticut e Massachusetts, scopriamo che questi due stati controllavano nel 1932 circa il 13,6% dei voti necessari per eleggere il Presidente, più della metà di quelli dell’ex Confederazione. La proporzione è scesa lentamente per ragioni demografiche e, nelle prossimo novembre, i 153 voti del Sud rappresenteranno esattamente il triplo dei voti degli yankee. Questo aiuta a comprendere anche il motivo per cui l’ultimo presidente democratico proveniente dal Massachusetts sia stato John Kennedy (1960) e l’ultimo originario di New York sia stato Franklin Roosevelt (1932-1944). Non si tratta certo di un buon auspicio per Hillary Rodham Clinton, senatrice di New York.
Nelle ultime otto elezioni presidenziali, i candidati democratici sono stati Gore (Tennessee), Clinton (Arkansas), Dukakis e Kerry (Massachusetts), Mondale (Minnesota), Carter (Georgia). Solo i sudisti Clinton e Carter hanno vinto, mentre Mondale (1984), Dukakis (1988) e Kerry (2004) hanno subito sconfitte senza appello. Insieme, i due blocchi di stati del Sud e dell’Ovest che ormai votano regolarmente repubblicano controllano 214 voti elettorali, il 40% del collegio, il che significa che bastano altri 57 voti, da raggranellare negli stati del midwest o della costa atlantica, per entrare alla Casa Bianca. Se aggiungiamo i 12 voti elettorali dell’Indiana e gli 11 di Kansas e Nebraska (che non hanno più votato per un candidato democratico dopo Lyndon Johnson) si arriva a 237 voti “sicuri” per il candidato repubblicano, chiunque esso sia.
I repubblicani dispongono quindi dell’88% dei voti che servono per eleggere il Presidente, più o meno in qualunque circostanza, chiunque sia il loro candidato e qualunque sia l’orientamento maggioritario dell’opinione pubblica.
Questo, naturalmente, non significa che i giochi siano fatti: al contrario. Nel 2008 si vedranno con maggiore chiarezza le fratture nel blocco sociale repubblicano già apparse nelle elezioni per il Congresso del novembre 2006. E’ possibile, per esempio, che il Colorado passi ai democratici, che potrebbero vincere anche in Iowa e New Mexico, dove nel 2004 ha prevalso George W. Bush per poche migliaia di voti. E’ però importante capire che la strada, per il candidato democratico alla presidenza, chiunque egli sia, sarà tutta in salita.


[1] Per un’analisi di come la vittoria fu rubata si veda il mio libro Il nazionalismo americano, UTET 2007, pp. 122-130. http://www.utetuniversita.it/scheda_opera.asp?DAPAG=HOME&ID_OPERA=3202.
[2] Dopo il censimento del 2000, i voti elettorali dell’Arizona sono diventati 10, quelli del Colorado 9, quelli dell’Oklahoma 7, quindi il totale (ai fini delle elezioni del 2008) è 61 e non più 59.
[3] Dopo il censimento del 2000, i voti elettorali di New York sono 31 e non più 33, quindi il totale oggi è 43 e non più 45.